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Berlinale 2013 – Concorso – Promised Land di Gus Van Sant (Usa, 2012)

promised_landDemocratizzare l’energia può diventare la terza rivoluzione industriale, due secoli dopo la prima e mentre la seconda, Internet, l’open source a costo zero, è ancora in corso?
Stando a Matt Damon, John Krasinski e Gus Van Sant le prospettive perché ciò accada sono discrete, a patto che circolino ancora bravi ragazzi dalla faccia pulita, disposti a farsi licenziare da un lavoro sicuro come Steve Butler.
E’ questa la terra promessa verso cui marciare: definire gli obiettivi, comunicarli con efficacia e riuscire ancora a pensare ad un mondo migliore.
Steve (Matt Damon), è rappresentante aziendale della Global Solutions Crosspower (Global Energy per farla breve), società di estrazione del gas dal sottosuolo con un giro di affari di 9.000 milioni di dollari.
Con la tecnica del fracking, “fratturazione idraulica” consistente nel trivellare pozzi tra i 1500 ed i 6mila metri di profondità, immettere acqua, solventi chimici e sabbia, quindi spingere in superficie gas naturale o petrolio sfruttando la pressione esercitata nel terreno, la Global non ha fatto che ottimizzare una pratica ultra decennale degli States, iniziata nel dopoguerra, secondo alcuni anche molto prima, e consistente nello sforacchiare il terreno per estrarne risorse energetiche.
Ma, poiché la natura si vendica, le fratture innescate hanno prodotto crolli, la micro-sismicità indotta e localizzata è diventata realtà e l’ impatto sulle risorse idriche è ormai incalcolabile,a causa della contaminazione chimica delle falde acquifere. Estrarre gas naturale anche da sorgenti non convenzionali – come le rocce di scisto o i depositi profondi di carbone – può rivelarsi un ottimo affare, purchè si viva a Manhattan e non si vedano mucche morte in cortile nè putridi pantani al posto delle vecchie, buone zolle girate dall’aratro e pronte per la semina annuale.
Damon e Krasinski, con l’idea e la sceneggiatura in mano, hanno allora detto a Van Sant:“Pensaci tu”, e lui l’ha fatto. Non sappiamo se poteva farlo meglio, come sostengono alcuni, se il soggetto non suo l’abbia un po’ frenato, se i vertici di Will Hunting, Milk, Paranoid Park e quant’altro svettano in lontananza. Quel che conta è che ha fatto bene.
“La cosa migliore che ho fatto, come produttore di Promised land, è stata licenziarmi e affidare la regia a Gus Van Sant…- dichiarato Matt Damon –  Non volevo giudicare, ma innescare una discussione su un argomento complicato. In America c’è gente che sta perdendo tutto e all’improvviso si ritrova con la prospettiva di diventare milionaria solo cedendo i diritti per la trivellazione del proprio terreno”.
La profonda provincia americana, qui la Pensylvania, quella di Van Sant, l’Oregon, quell’America povera e agricola dove tornano i veterani dall’Irak, dall’Afghanistan, una volta dal Vietnam, quando riescono a tornare, e fanno fatica a saldare il mutuo, far studiare i figli, pagare il dentista, è il posto migliore per comprare a suon di dollari i diritti sulle terre di proprietà e cominciare a perforarle.
Sotto il pavimento della cantina c’è un tesoro, perché non sfruttarlo?
Questo è il leit motiv che Steve, un passato da venditore di strada, recita ai  suoi “clienti”, poveracci esclusi dal sogno americano, a cui è fin troppo facile vendere perline e farle sembrare la soluzione giusta della loro vita sfigata.
Capita, però, che non sempre certe operazioni vadano a buon fine, magari in favole un po’ alla Frank Capra, certo, ma se non è quella macchina dei sogni che il cinema è a coniarli, chi può ancora farlo, oggi?
Dunque Steve, un ragazzone dalla faccia contadina e dal fisico massiccio di chi una volta passava la giornata a zappare e rigovernare animali, si è affrancato dall’origine povera e si è vestito da business man in carriera. L’azienda, lungimirante e infallibile nell’individuare l’uomo giusto, l’ha spedito a McKinley, paesone anonimo ripreso sempre dall’alto, con le casette sparse fra prati verdi, stalle e laghetti per la riserva d’acqua. Con lui c’è Sue Thomason, una straordinaria Frances McDormand che ruba a Damon una scena dopo l’altra, donna pratica, cinica quel tanto che serve, unico amore della sua vita il figlio lasciato a far gare di baseball in città, e una dose di tolleranza dell’ingenuità di Steve da far invidia. Per lei “è solo un lavoro”, e l’orizzonte etico si chiude lì, per Steve c’è qualche problema in più.
Tenta di far bene quello che è venuto a fare, è sinceramente convinto che sia tutto giusto, lui viene dalla provincia e sa come parlare a quelle persone, ora si veste anche come loro.
Ma prima è Frank Yates (un serafico Hal Holbrook in un cameo che brilla di luce propria) a scombinare i giochi e innescare in Steve un percorso evolutivo che scaverà nel profondo. In una comunità che non ha voce, facile preda di chi parole ben assemblate ne ha da vendere, Yates sa dire le cose giuste, e con quel sottile garbo ironico che riempie di gioia la platea in tensione.  “E lei… chi è?” fa il perplesso Steve, per cui l’affare era già fatto ( Sue, vicino all’ingresso, ha già lo sguardo feroce di chi ha capito come andrà a finire). “Un professore…”
E fin quando da accurate indagini non sarà l’azienda a scoprirlo, non sapremo che Yates è un professore di scienze con dottorato in fisica rilasciato da una prestigiosa università americana, ora in pensione e ancora prof. nella scuola del paese per hobby. Una simpatica ragazza pulita, Alice (Rosemarie DeWitt) insegnante elementare, e Dustin Noble (John Krasinski), il militante ecologista spuntato dal nulla a far ostruzionismo con cartelli, depliants e bel sorriso affascinante, faranno il resto. Steve e Sue stanno perdendo la partita, ma un prefinale inaspettato, da non rivelare, un vero colpo di genio della sceneggiatura, rimette tutto in gioco. E, infine, il finale, quello sì, abbastanza prevedibile, visti i toni da favola che Van Sant ha giustamente confezionato per una storia che non è fatta di bianchi e neri, ma di un’ampia gamma di toni medi.
C’è la realtà di un mondo globalizzato in cui sembra non ci sia scampo, non ci sono buoni e cattivi ma individui chiamati, prima o poi, a far i conti con sè stessi. C’è un Paese che guarda dentro i suoi miti e le sue miserie, non sapendo ancora bene cosa fare. L’uomo medio è Steve, intorno a lui una piccola comunità silenziosa in cui si scontrano, dolorosamente, le contraddizioni della contemporaneità. Miseria e miraggio di soldi facili, attaccamento ancestrale alla terra e pedaggi pesanti da pagare per non tradirla.
Van Sant va al cuore di un problema, lo fa disseminando segnali (centrale, quello dell’acqua, onnipresente) ma coprendoli abilmente nel semitono cromatico del quotidiano, così da non tingersi da apologo o parabola.
Questo è lo stato delle cose, ci dice, parliamone, e se c’è spazio ancora, nel cinema, per un residuo di speranza, diamolo, può essere la nuova terra promessa.

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