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Berlinale 2013 – Concorso – Gold di Thomas Arslan (Germania, 2013)

gold_arslanCosa mai ci farà uno sparuto gruppo di sette immigrati tedeschi perso lungo gli impervi sentieri del Canada, nel 1898? Ovviamente, in pieno periodo Gold Rush, è sulla strada che porta alle pepite d’oro di cui dovrebbe abbondare la zona intorno a Dawson City, paese perso tra le foreste del nord canadese. I compagni di avventura, diversissimi tra loro, sono accomunati da un solo desiderio: riscattare una vita fatta di stenti, fatiche e umiliazioni arricchendosi di oro. Ovviamente, tra loro nascono conflitti e altrettanto ovviamente quasi tutti i personaggi muoiono lungo la strada. E certo no, come di norma nei western a finale ‘aperto’ degli ultimi decenni, noi non sapremo mai come va veramente a finire, ovvero se Emily Meyer (Nina Hoss), che del gruppo è l’unica a continuare nell’impresa, raggiungerà mai il suo Eldorado. E perché mai sorprendersene… in fondo, ormai dovremmo saperlo che ciò che conta davvero non è la meta ma il viaggio. Sì, vero, va anche detto che in tutto ciò c’è anche una storia d’amore vissuta molto ‘alla tedesca’ ma su questo non vorrei aggiungere altro per non rovinare agli spettatori le gioie (e i dolori) della sorpresa.
Insomma, detto fuori dai denti, Gold, del professore universitario e regista Thomas Arslan (Dealer, 1999; Geschwister, 2006) è un film farsa che si ispira maldestramente alle atmosfere dello stupendo Meek’s Cutoff (film di Kelly Reichardt, 2010, recensito da questa parte su indie-eye.it), mischiandole a un mood alla Dead Man (Jim Jarmusch, 1995). Il tutto assommando due ‘punti morti’ del genere Western: protagonista vincente femminile e focus su un gruppo di immigrati tedeschi, rattoppandoli insieme tramite una sceneggiatura superficiale che, a tratti, tra un luogo comune e l’altro, scade a volte nel grottesco, altre volte nel ridicolo.
Non è solo la sceneggiatura ad essere problematica. La fotografia di Patrick Orth è smorta, le inquadrature sono di una banalità disarmante, quasi televisiva; il montaggio della pluripremiata Bettina Böhler è tanto ben educato da risultare, a tratti, noioso; la musica di Dylan Carlson si ispira ‘molto’ a quella scritta da Neil Young per Dead Man. La regia di Thomas Arslan è inesistente e si appoggia all’estro di attori vistosamente impreparati e non in grado di mettere da parte le maschere già indossate in altri film (sicuramente non western). Nina Hoss non si sottrae a questa critica; fa sorridere di tristezza il vederla alle prese con un moribondo, dopo averla ammirata un anno prima nel ruolo di Barbara, una coraggiosa dottoressa, nell’omonimo film di Christian Petzold.
Gold, nonostante tutto, è un lavoro da cui si può trarre un insegnamento: per fare un grande film non bastano teorie ripescate ad hoc da un qualche manuale di cultural studies e organizzate in modo da voler riempire vuoti categoriali lasciati aperti dalle convenzioni che definiscono un genere. Per fare un grande film ci vuole almeno una visione del mondo, e questo è proprio ciò che nel film di Thomas Arslan manca.

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