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Berlinale 2013 – Panorama Dokumente – Out in Ost-Berlin – Lesben und Schwule in der DDR di Jochen Hick e Andreas Strohfeldt (Germania 2013)

Un documentario mal fatto non meriterebbe una recensione, dal momento che il silenzio è spesso la migliore stroncatura. Detto questo, è interessante studiare il caso di Out in Ost-Berlin per una serie di motivi. Il primo e il più importante dei quali è il legame sotterraneo con un documentario molto simile presentato l’anno scorso (non cinque, o dieci anni fa: l’anno scorso) nella medesima sezione della Berlinale. Stiamo parlando dell’ottimo Unter Männern (recensito da questa parte su indie-eye) di Markus Stein e Ringo Rosener, che come suggerisce il titolo affronta l’omosessualità – solo maschile – ai tempi di Ulbricht e Honecker.

Se Hick e Strohfeldt avessero scelto di realizzare il loro film instaurando un rapporto dialettico con quello di Stein e Rosener, partendo da Unter Männern, citandolo e limitandosi a colmare gli inevitabili buchi di un documentario che non aveva certo pretese di esaustività, se lo avessero fatto, dicevamo, questo Out in Ost-Berlin avrebbe un fascino molto diverso. E sarebbe anche simpatico. I due autori, invece, ignorano o meglio fingono di ignorare l’ottimo lavoro dei loro colleghi e calano la carta del documentario “definitivo” sul tema delle omosessualità sotto la DDR. Commettendo leggerezze varie ed eventuali a partire dalla scelta degli intervistati, con tutto il rispetto meno interessanti e vivaci degli Schwulen di Ringo e Markus. Clamorose, ed evitabilissime, le ripetizioni pressoché pedisseque di alcuni racconti, in particolare la descrizione della vita gay di Lipsia e il contributo del più famoso attivista cristiano dell’epoca socialista tedesca, Eddy Stapel. Il quale ribadisce paro paro cose già dette all’altro obiettivo, e mostra persino gli stessi atti della Stasi. Un effetto fotocopia davvero sgradevole.

Il secondo motivo a detrimento di Out in Ost-Berlin è che questo titolo, sul film, non si vede, poiché i credits di apertura recitano Out in East Berlin. Potrà sembrare un dettaglio, ma se a questo aggiungiamo due interventi piuttosto lunghi in lingua inglese da parte di attivisti non tedeschi (in particolare uno britannico, il benemerito Peter Tatchell) e la presenza, sulla copia, di sottotitoli colorati – per differenziare l’inglese di default dal tedesco – si capisce al volo che l’intera produzione è stata pensata per il mercato internazionale, col pensiero a quanto un tema del genere possa fare fico. Tra l’altro, il movimento schwul della DDR non fa neanche una gran figura messo accanto agli aneddoti e alle analisi di Tatchell.

Prima di sviscerare il terzo e ultimo motivo della bruttezza di questo documentario, forse quello più pesante, vale comunque la pena descriverne i contenuti per sommi capi. Facendo largo uso di immagini di repertorio, Out in Ost-Berlin descrive la vita gay-lesbo sotto la Repubblica Democratica Tedesca da un punto di vista prevalentemente sociale e politico. Nei primi anni Settanta, in risposta al gruppo berlinese occidentale HAW (Homosexuelle Aktion Westberlin), nella capitale della DDR sorse l’HIB (Homosexuelle Interessengemeinschaft Berlin), ed erano tempi in cui, più che schwul (‘frocio’, termine offensivo riappropriato in chiave orgogliosa) si usava ancora il vecchio verzaubert (‘ammaliato’). Gli obiettivi dell’HIB erano tre: fare famiglia (non potendone fondare una in senso classico), spiegare l’omosessualità alla popolazione e agire nella sfera pubblica. Inutile dire che, malgrado la SED, al contrario del governo di Bonn, avesse già abolito nel 1968 il vecchio paragrafo 175 – scritto ai tempi del Kaiser – che puniva le pratiche omosessuali col carcere, la strada era tutta in salita e i primi, timidi segnali di tolleranza da parte del potere sarebbero arrivati solo all’alba degli anni Ottanta. La verità, per quanto poco cool possa suonare, è che, esattamente come sarebbe accaduto nel 1989, il movimento cominciò a strutturarsi attorno alle chiese evangeliche e a figure di riferimento come Stapel, un teologo. Il partito socialista unitario, dal canto suo, ha sempre dato prova di sincero machismo e inarrivabile ottusità. Costringendo le lesbiche a sbronzarsi in gruppo nelle Kneipen e i froci a ciarlare nei cessi tra una sveltina e l’altra.

Pochissimi sanno – e con questo arriviamo al punto finale – che la prima vittima del muro, Günter Liftin, era un ragazzo omosessuale. Hick e Strohfeldt hanno intervistato il fratello Jürgen, che passa le sue giornate a raccontare la morte straziante di Günter presso la torretta-memoriale nella Kieler Straße 2, a Mitte. Orbene, il signor Jürgen non vede di buon occhio gli omosessuali e nega da sempre che suo fratello lo fosse, aggrappandosi – legittimamente – a un articolo carico d’odio che il giornale Neues Deutschland scrisse nel settembre 1961 allo scopo di giustificare l’assassinio del giovane, dipingendolo come un borghese decadente e filoimperialista. I due registi spalmano l’intervento di Liftin in tre punti del documentario, tra cui il finale, facendo sì che il pubblico odi quest’uomo, sì omofobo, ma il cui unico peccato è un’ignoranza innescata dal dolore. Stiamo parlando di un uomo che ha dedicato tutta la vita alla memoria del fratello ucciso. Così facendo, mettendo cioè in cattiva luce, con l’arma non convenzionale del montaggio, una persona che col tema del documentario ha ben poco a che spartire, Jochen Hick e Andreas Strohfeldt si abbassano agli stessi dell’organo della SED. E mettono la ciliegina su una torta già alquanto indigesta.

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