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L’Apollonide – Souvenirs de la maison close di Bertrand Bonello – Cannes 64 – Concorso

Ci sono film di cui davvero non si sente la mancanza e l`ultima sontuosa fatica di Bertrand Bonello, presentato in competizione al festival di Cannes, rientra senz`altro nell`elenco. Decadente e illustrativo come un Visconti di seconda mano, L`Apollonide-Souvenirs de la maison Close aspirerebbe all’allure dello scorcio d’epoca, ma si trasforma subito in un bozzetto irritante, che si limita ad riprodurre, con precisione museale, luci, colori e pose della pittura francese dell’800. Saltellando da Ingres a Courbet, da Manet a Renoir, Bonello saccheggia senza pietà temi e toni di quadri ben noti (si riconoscono, fra gli altri, Il bagno turco, Le dejeuner sur l’herbe, L’origin du monde), scambiando l’arte per la sua riproduzione e la ricchezza delle idee con lo sfarzo dei costumi.  Nella Parigi di fine ‘800, l’Apollonide, prestigiosa Maison Close gestita da Marie-France, ospita pittori, politici ed ereditieri desiderosi di intrattenersi con le meravigliose creature che la popolano. Se al primo piano cristalli, tappeti e morbidi sofà fanno da sfondo ideale a (noiosissime) conversazioni, al secondo i clienti possono dare libero sfogo ai loro desideri più nascosti, di cui, naturalmente, Bonello ci offre un vasto campionario: donne bambole, donne geishe, donne schiave, o uomini che si divertono con i coltelli e con le indagini anatomiche. Così l’idea di rappresentare dall’interno, e non semplicemente come un tassello dello sfondo, il crepuscolo delle case chiuse di Francia, con l’ambizione di gettare uno sguardo critico sull’ultima forma legalizzata di schiavitù femminile, si perde ben presto nella semplice stilizzazione di vizi e debolezze umane, riuscendo a malapena a graffiare le superfici laccate della maison. Al fondo sente l’ansia di sottolineare l’incolmabile scarto fra l’illusione di sfrenata libertà che inizialmente anima le ragazze e la crudeltà di una prigionia senza rimedio, che le condanna ad un’esistenza da recluse, ingenerando un meccanismo da cui quasi nessuna riuscirà più a svincolarsi. Entrate nella maison per guadagnare il denaro necessario a sopravvivere o a ripianare i loro debiti, le ospiti finiranno per accumularne sempre di più per acquistare i costosi strumenti del mestiere (abiti, profumi e medicamenti), sopravvivendo nella vana speranza che un cliente facoltoso le prenda in moglie e che la sifilide non le uccida. Accatastando scene inutilmente provocatorie e simbologie varie con crescente insistenza, Bonello sembrerebbe però non confidare troppo nell’intuito dello spettatore, fino ad un delirante e grottesco prefinale in cui, mentre una rosa bianca perde ad un uno ad uno i suoi petali, si materializzano le fantasie macabre della più sventurata fra le protagoniste. Altrettanto scontata, e vagamente ambigua nelle intenzioni, l’inquadratura finale, che ci catapulta sugli affollatissimi marciapiedi della Parigi contemporanea.

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