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Cannes 65 – Concorso – Cosmopolis di David Cronenberg – (Canada, Francia – 2012)

Il giovane e potentissimo guru della finanza Eric Packer attraversa lentamente e inesorabilmente New York per soddisfare il capriccio di un nuovo taglio di capelli. Gli uomini della sicurezza lo avvisano di minacce incombenti alla sua persona e del caos nelle strade per la visita del Presidente degli Stati Uniti, mentre gli elementi del suo staff, a cui dà udienza lungo il viaggio sulla sua limousine,  lo mettono al corrente dei rischi della vertiginosa ascesa dello Yen che sta inghiottendo rapidamente il suo  enorme capitale. Autointrappolato nel funereo ventre tubolare della limo, Eric prosegue impassibile nel suo frenetico e allo stesso tempo immobile moto verso tutto ció che vuole la sua morte, incarnato dall’insignificante Benno Levin, suo doppio e antitesi, l’ordinario perseguitato dal caos, che ammira e detesta chi sa ricavare ordine dal caos incessante delle cifre su uno schermo.

Due sistemi inconciliabili che cerchiamo disperatamente di tenere insieme“: in questa frase del romanzo di DeLillo risiede forse l’intera poetica del cinema ossessivo e impossibile di Cronenberg, l’eterno conflitto tra organico e teorico, carne e tecnologia, corpo e intelletto. Lo stesso si puó dire per il profetico versetto “il topo diventerà moneta corrente“, fusione grottesca tra materia pulsante e caotica,  schemi numerici e astratti. il regista canadese decide di mantenere alla lettera la miriade di spunti che lo imparentano al testo, riportandoli da carta ad immagine senza raccogliere i pur interessanti squarci visionari (la città coperta di schermi cifrati ad esempio), anzi volutamente soffocandoli in uno straniamento teatrale di entomologica freddezza. Il dialogo tra Packer e Kinski, la sua analista teorica affascinata dai manifestanti che vogliono arrestare l’avanzata verso il futuro e indifferente verso l’uomo che si dà fuoco in piazza , viene messo in scena in maniera fortemente significativa rispetto alle intenzioni di Cronenberg: i dialoghi vengono ripetuti meccanici e pedissequi, con i due personaggi isolati nel tumulo insonorizzato dell’automobile e i tumulti esterni ridotti ad una silenziosa parata carnevalesca. Il testo recitato è distante dagli eventi narrati, ogni fiamma, ogni svolta del film è come già successa, già passato rispetto all’attimo del suo apparire sullo schermo, il corteo funebre di Packer avanza controllato e senza invenzioni. Un processo curioso per ció a cui ci ha abituato in passato Cronenberg, ma già evidente nella soppressione degli istinti visionari e annullamento dell’elemento fisico di contagio in A Dangerous Method.

L’opera di fredda sottrazione si riflette nella scelta di affidare la parte da protagonista e perno di ogni inquadratura a Pattinson, che  prestando  i propri spigoli  indifferenti ad Eric Packer si misura con un vampiro ben più autentico di quello che l’ha portato al successo:  secoli di monotonia compressi in una vita breve, votata al perseguimento dell’attimo, al controllo spasmodico e istintivo dell’infinitesimale, incarnazione dell’eccesso di lussuria, volontà e vitalità che si ottunde fino a sfociare nella noia, nella smania di controllo e nel desiderio di morte. Un uomo che finisce con lo scavalcare sè stesso nell’intento di scavalcare il presente. Allo stesso modo Cronenberg riporta asetticamente sullo schermo il testo di DeLillo negli anni che quello stesso testo preconizzavao, con la folle astrazione della finanza, le proteste anticapitalistiche, l’aggiornamento continuo, un centesimo di secondo alla volta, dei dati, delle informazioni, delle misure in cui abbiamo cercato di ridurre il mondo. La realtà ha già messo in scena questo racconto e il film che ne trae Cronenberg, in una discutibile ma plausibile scelta (anti)autoriale, decide di dichiararsi già detto con automatico, vampiresco distacco.

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