Home covercinema Django Unchained: Quali menzogne sono vere?

Django Unchained: Quali menzogne sono vere?

Which lies are true?
(J.G. Ballard)

Non è un mistero ne un riferimento tenuto a distanza di sicurezza, Samuel L. Jackson, per il personaggio di  StephenJamie Foxx per preparare il suo Django Freeman hanno seguito una dieta culturale consigliata dallo stesso Tarantino che includeva Addio Zio Tom, il film diretto nel 1971 da Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, penultimo della coppia, realizzato cinque anni dopo il loro titolo più controverso, Africa Addio, e girato quasi interamente nell’Haiti di Papa “Doc” Duvalier.

Quelli che Pauline Keal definiva come “i cineasti più perversi e irresponsabili mai esistiti” ritrattavano apparentemente l’involucro documentaristico spinto ad un corto circuito estremo nella loro esplorazione del continente Africano, preferendo una forma di re-invenzione storica non così distante dalla messa in abisso tra documento e storia, nel cinema di Peter Watkins  (Culloden, The War Game). Jacopetti e Prosperi, con una propensione più radicale e un gusto quasi psicotronico per l’eccesso rispetto all’impostazione storiografica del regista inglese, si infilavano come testimoni impossibili dentro il Sud della guerra di secessione, intervistavano gli schiavi, giocavano con i clichè di tutto il cinema di genere, compreso il loro, parodiavano il cinema classico americano e anticipavano il Mandingo di Fleischer in una portentosa “mostra delle atrocità” che per lo stesso J.G. Ballard, sincero ammiratore della coppia, rappresentava una chiave interpretativa importante per quello che stava accadendo nella mutazione del panorama mediatico dopo le immagini di Zapruder sull’omicidio di Jfk; niente poteva essere considerato vero e niente poteva essere considerato falso in una incessante ridefinizione della realtà dove documento e simulazione occupavano uno spazio di confine indistinguibile; come a dire che il cinema di Jacopetti e Prosperi, nel suo costante e brutale rovesciamento della palpebra, si configurava come il primo tentativo di costruzione di una fiction “collusiva” che oggi innesca i processi di formazione di quell’immagine che definiamo “automaticamente” come “immagine della realtà”.

In fondo, la televisione del reale, quella che si è sviluppata intorno all’avvitamento tra inchiesta e ricostruzione nelle trasmissioni di Michele Santoro, è la fase terminale e più scellerata di questo processo, nella sua elusione totale di qualsiasi disinnesco endogeno del dispositivo, nell’assenza programmatica di un possibile ribaltamento del punto di vista e nella purificazione di tutte le ambiguità della visione, aspetti che nel cinema di Jacopetti e Prosperi collidevano con forza Artaudiana e amorale in una compresenza inaccettabile tra distacco e partecipazione, documento e falsificazione, tra esser testimoni e agenti dell’orrore, che il paese di Togliatti e Don Sturzo non avrebbe mai potuto accettare come rappresentazione feroce della propria coscienza.

Il rimosso scomodo viene parzialmente  reintegrato da certa critica Italiana, posturalmente anarcoide,  con lo sdoganamento di autori come Ruggero Deodato (o in un contesto diverso, Pier Giuseppe Murgia) spesso operato attraverso quell’invisibile filtro “morale” di debolissima derivazione meta-cinematografica che mettendo le mani avanti con qualche scusa di troppo, ha estratto dal cilindro il  disinnesco “critico” di quei processi sottintesi dal cinema “fascista” e “criminale” di  Jacopetti e Prosperi per prenderne le distanze, salvo poi ricostruirne tutte le occorrenze dietro uno schermo debolmente semiotico.

Quentin Tarantino, nelle interviste rilasciate a mezzo stampa dopo la presentazione Romana di Django Unchained si è lasciato sfuggire un motto di spirito non troppo lontano dal taglio “shock” e anti-narrativo di Jacopetti e Prosperi, La schiavitù, ha dichiarato il regista americano, era una realtà brutale e surreale, più di quanto l’arte sia in grado di rappresentare. La stessa “virtualità” che Gualtiero Jacopetti descrive nel raccontare la sequenza di apertura di Addio Zio Tom, dove un bozzetto di vita coloniale viene filmato con l’uso estremo di filtri “flou” restituendo così l’immagine di una realtà transizionale tra sogno e linguaggio pubblicitario: “ho fatto questa scelta per rafforzare l’idea di assurdità che attraversa tutto il film“.

Una surrealtà quella Tarantiniana costituita da quelle cicatrici  che consentono di superare una memoria cinematografica completamente virtuale, tanto è stata assorbita dalla trans-apparenza degli archivi digitali, database globali che vanno ad una velocità diversa rispetto alla cinefilia di dieci, venti, trent’anni fa. Allora se parlando di Bastardi senza gloria abbiamo cercato di evitare la retorica dell’omaggio, la trappola della citazione, del ri-fare lo stesso gioco o ancora più semplicemente, di roversciarlo in quella riduzione di un gesto anarchico nel segno opposto e contrario della museificazione cult-uale, ci sembra che la prossimità dichiarata con il cinema dei “fascisti” Jacopetti e Prosperi, nel riferirsi ad un testo già così vitalmente ambiguo e mostruoso,  passi attraverso la stessa feroce capacità dis-armonica che ci interessa da sempre del  suo cinema; lo spazio occupato dal colore, in questo film in particolare illuminato da una luce digitale che ha le stesse caratteristiche post-pittoriche e cromosomiche dell’ultimo Cronenberg, il modo in cui il motto di spirito diventa, Kubrickianamente, un passaggio tra pensiero e immagine, la relazione distruttiva tra corpi e set, tanto che sia Inglorious Basterds che Django Unchained finiscono tra le fiamme come un film (a scelta) del ciclo poe di Roger Corman, ovvero con quella stessa “serialità” Wharoliana.

Se la parodia di “Via col vento”, la sovrapposizione quasi in funzione astratta tra violenza e il romanticismo di Riz Ortolani era già dentro il film iconoclasta di Jacopetti e Prosperi, Tarantino prende questi elementi e li trasforma nella tessitura complessa ed “epica” di un’opera totale tra colore e musica, dove per “musica” si intende una propensione all’orchestrazione imbastita attraverso gli scarti e le differenze di un procedimento veramente decostruttivo, un movimento che niente ha a che vedere con la “distruzione” o il “rovesciamento”, casomai con le tracce di un sistema, di conoscenza enciclopedica, che trova nuovi percorsi tra aderenza e oblio, ricordo e dimenticanza, origine e distorsione, affetto e tradimento.

Le scienza razzista del professor Samuel A. Cartwright, che in Addio Zio Tom fa la sua apparizione “in costume” come la sarabanda di  altri personaggi storici nel film di Jacopetti e Prosperi, viene disseminata nel corpo e nelle azioni di Calvin Candie (Leonardo DiCaprio) che ne assume tutte le teorie sulla capacità cranica delle razze inferiori, una trasmutazione abissale, che abita (avanti e indietro nel tempo) entrambi i testi, con quella stessa infiammabilità delle immagini che rivelava contraddizioni, presupposti e pregiudizi impliciti del linguaggio occidentale in una delle foto promozionali di Addio Zio Tom dove si vede Jacopetti stesso che entra in campo imbracciando una frusta, mentre uno schiavo nudo pronto a ricevere i colpi guarda verso di noi, oppure in quello splendido artwork realizzato da  Guy Peellaert che ritraeva i Rolling Stones vestiti da Nazisti insieme a quattro bimbe nude.

Exit mobile version