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Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri

 

Indagine è cinema civile, politico, addirittura sociale ma non solo. E’ un thriller; è un giallo al contrario, in cui è noto l’assassino ma non la pena in cui incorrerà. E’ un saggio sui rapporti di potere (i rapporti di subordinazione, gli organi repressivi, la stampa asservita, la politica di piazza vs. quella di palazzo) sviluppato attraverso un linguaggio articolato, che fa del grottesco il suo strumento d’elezione, che non si limita a narrare i fatti ma li problematizza in una messinscena volutamente fuorviante, apparentemente caotica; sempre a un passo dalla commedia (la presenza di noti caratteristi del genere, la fugace apparizione del grande Gianfranco Barra ad esempio, parla da sola) senza mai esserlo. Che amalgama Brecht e Freud, Godard e Fellini con Steno, persino Bene e Artaud con Kantor, nei suoi inseguimenti verbali, nei suoi miracolosi piani sequenza mossi (la bomba in questura); nell’esplosione cromatica della fotografia di Luigi Kuveiller; nelle stranianti inquadrature stabilizzate sui piani medi ed i primi piani; nelle analessi oniriche; nelle musiche di un Morricone ai suoi vertici.

Ogni dialogo, ogni singola sillaba, è il prodotto di un’attenzione maniacale al particolare, che frutta un testo concentrato di formule lapidarie, epocali, forti ed immediate come slogan, pur se prodotte da ragionatissime letture misurate al millimetro e che, con pochi tratti essenziali, riescono ad esporre tutti i segni della complessa macchina istituzionale.

L’assoluto controllo sulla direzione degli attori, frutta a Petri interpretazioni fuori dall’ordinario, finanche dall’ultimo degli attori presente in scena per pochi istanti: Orazio Orlando (il brigadiere Biglia che è tutto un gioco d’espressioni contrastanti “a levare”), Gianni Santuccio (il sordido questore, senza nome anch’egli), Arturo Dominici (l’infido Mangani), l’eccezionale Sergio Tramonti (Antonio Pace), Aldo Rendine (il timoroso, iconico, Panunzio).

Su tutti svettano una Florinda Bolkan/Augusta Terzi che porta con se, in ogni sua apparizione, velata (anche in senso letterale: sempre attraverso una luce leggermente sovraesposta) dal presagire della morte violenta subita (e subito mostrata), il mutamento in atto della figura femminile nella società italiana del tempo: una donna risoluta ma non ancora libera; che critica il “maschio” ma subisce il fascino dell’uomo potente, demolendolo però, poi, nell’unico modo possibile: minando il suo orgoglio virile frustrato, da piccolo borghese latino (caratteristica amplificata dal sarcastico accento meridionale del protagonista, che trova eco anche nei colleghi della questura. Piccola nota che di per sé, narra di un meridione che trova ancora rispettabile sicurezza economica solo nel lavoro di caserma); quell’orgoglio mantenuto su da un’impalcatura sorprendentemente fragile, entro la quale si cela un individuo meschino ed insicuro, che sublima la propria mediocrità nell’esercizio quotidiano della prevaricazione (“io rappresento qualcuno… tu dovresti baciare il terreno dove cammino”); nel quale, i presunti torti subiti (l’umiliazione, lo scherno, le corna) innescheranno quel meccanismo di rivalsa e vendetta che sarà scaturigine dell’omicidio.

Ed, ovviamente, non poteva che Gian Maria Volontè, oltre la soglia dell’umana bravura, a riuscire ad “essere” il film senza mai soverchiarne il testo. Il suo commissario è un personaggio nevrotico, narcisista, burbero ma anche paternalista e bonario; incarna lo Stato, ne espone i principi autoritari. Uno Stato che vuole i suoi cittadini come infanti da istruire, manovrare, (“il popolo è minorenne”) su cui imporre la propria carica (“repressione e civiltà”). Volontè, all’apice della sua carriera, fa suo un personaggio sgradevole, nutrendolo di elementi vividi e vibranti; lo carica di un fascino respingente e sinistro, giocando da istrione con gli archetipi della caratterizzazione della commedia all’italiana (che aveva frequentato già agli esordi con lo splendido A Cavallo Della Tigre di Comencini, peraltro con un Manfredi ed un Adorf eccelsi); restituendo una figura ai limiti e forse anche oltre i limiti della maschera, pur se pregna di un innegabile, terribile, realismo. Volontè è, allora, nel pieno di quella stagione che, dopo i fasti leoniani e il verme di Bisanzio di Monicelli, lo imporrà come volto definitivo del cinema d’impegno, oltre che tra i più grandi attori di ogni tempo. La sua recitazione, da pacata e minimale com’era stata sino ad allora e come sarà ancora nella terza parte della sua carriera, si fa improvvisa, scattante, aggressiva, eppure calcolata, trattenuta, strategicamente sopra le righe; perfetta all’interno del quadro composto da Elio Petri (mai abbastanza compianto) ed Ugo Pirro, di cui l’immenso Gian Maria fu molto più che un interprete ma vero e proprio coautore. (continua nella pagina successiva...)

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