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La fuga di Martha di Sean Durkin (Usa, 2011)

Presentato al Sundance Film Festival, Selezionato nel palinsesto di Cannes 64 all’interno della sezione Un Certain regard e visto recentemente al Courmayeur Noir in Festival il debutto sulla lunga durata per l’americano Sean Durkin è un film che procede inesorabilmente verso un punto cieco. Una notevole Elizabeth Olsen sembra condividere con la Yekaterina Golubeva di Few of us l’inabissamento in uno spazio vuoto, sin dai primi minuti del film quando Marcy May fuggendo da un’arcaica comunità rurale viene inghiottita dalla foresta circostante, per trovarsi disorientata presso un’area di servizio a chiedere aiuto alla sorella Lucy, nei panni di Martha. Un conflitto identitario che Durkin osserva dalla distanza del fuori campo facendo collidere lo spazio all’interno di un racconto temporale incongruo, con il lento scivolare di due immagini famigliari l’una dentro l’altra. Non si farebbe allora giustizia allo sguardo amorale del giovane regista Americano se si parlasse di una fuga da qualcosa, perchè Martha, Marcy May e Marlene nel percorso terribile che porta il personaggio intepretato dalla Olsen ad uno scollamento da tutti i lati del prisma che costituiscono la sua complessa identità, escono ed entrano continuamente da una realtà palindroma che perde a poco a poco quella linea di confine visibile tra realtà vissuta e realtà immaginata. Lo spazio alto borghese che la ospita, dopo due anni di separazione dalla famiglia senza lasciare alcuna traccia, assume lentamente una valenza quasi onirica; il nido di Lucy e del marito Adam è in effetti un luogo di asettica armonia minato dallo stato transizionale di Martha, anima tra due mondi quasi come quella di Carey Mulligan in Non Lasciarmi. Se i segni di una vita cultuale aliena legata alla doppia vita di Martha sembrano nascondere il peso di ferite marcite nel profondo, da dove emergono le immagini di una legge morale basata sull’orrore, l’abiezione, la coercizione, il dominio di un patriarca (John Hawkes) terribile; al contrario, l’inadeguato appello al senso di responsabilità a cui Adam cerca di richiamare la cognata collide con la stessa violenza contro il corpo e la mente della donna; Martha porta con se un messaggio di distruzione dello spazio famigliare, non ne riconosce più la funzione scagliandosi contro oggetti, scorgendo l’orrore nei gesti quotidiani, violando il senso riconosciuto di spazio privato; ed è con questo senso di minaccia che Sean Durkin contamina due luoghi dell’immaginario occidentale, quello sacro e quello laico, quasi come se si trattasse di una versione interiore del Deliverance di Boorman, alludendo, in una folgorante conclusione sospesa, ad una pericolosa compenetrazione tra mondi.

 

 

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