Home alcinema La Madre di Andrés Muschietti

La Madre di Andrés Muschietti

Il debutto dell’Argentino Andrés Muschietti si inserisce perfettamente nell’interesse quasi ossessivo di Guillermo del Toro per la morfologia della Fiaba, basterà citare due tra le produzioni più recenti del regista-produttore Messicano, The Orphanage del 2007 e soprattutto Non avere paura del buio, primo lungometraggio diretto nel 2010 da Troy Nixey e molto vicino al film di Muschietti nel mettere in relazione lo sguardo dell’infanzia con una dimensione ultrasensibile.

In entrambi i casi, si tratta di piccoli racconti di formazione che rileggono un immaginario horror storicamente stratificato, attraverso una lente psicologica e antropologica, lavorando su alcune tracce, come per esempio quella gotica, in una direzione fortemente simbolica e con un interesse superficiale per le anomalie del tempo o la relazione tra materia e antimateria, elementi trattati sicuramente con maggiore incisività da Muschietti rispetto alla ghost story di Nixey.

Scritto insieme alla sorella Barbara, Mama è una versione estesa del secondo corto di Muschietti dal titolo quasi uguale (Mamà) dove le piccole Victoria e Lily attendono il ritorno della madre, fantasma di una donna morta. Da questo abbozzo la coppia di fratelli argentini sviluppa la versione destrutturata di una fiaba à la Grimm partendo da una classica situazione di allontanamento, preludio per un terribile rito di passaggio.

In seguito alle conseguenze della crisi economica sulla sua vita professionale, Jeffrey (Nikolaj Coster-Waldau) uccide la moglie e conduce le due figlie Victoria (Megan Charpentier) e Lily (Isabelle Nélisse) in un capanno in mezzo al bosco per porre fine alla sua e alle loro vite. Cinque anni dopo, il fratello gemello Lucas, disperatamente sulle tracce dei tre scomparsi, troverà le due bambine in uno stato ferale, le prenderà con se in casa condividendo il difficile recupero con la compagna Annabel (Jessica Chastain) bassista in una rock band. Ma le due bambine non si muovono da sole, sono seguite dal fantasma di una donna morta in circostanze oscure, la stessa creatura che come una madre le ha nutrite all’interno del capanno nei cinque anni precedenti.

Muschietti amplifica la dinamica shock del suo cortometraggio con la stessa retorica legata allo slittamento percettivo, le acelerazioni, le manifestazioni improvvise e allo stesso tempo cerca di lavorare su una materia quotidiana che rivela i suoi momenti migliori nella relazione di mutua diffidenza tra le bambine e Annabel, quasi si trattasse di una rilettura allegorica sul trauma dell’adozione. In questo contesto, Muschietti sembra maggiormente interessato a trasporre la rappresentazione della psiche infantile sul piano del decòr, tanto da aver insistito molto attraverso la comunicazione ufficiale sulla sua passione per la storia dell’arte, sulla costruzione del fantasma materno realizzato pensando ad un “quadro di modigliani putrefatto” e sui numerosi e consapevoli riferimenti che riconducono alla Lowbrow art, tirando in ballo a questo proposito il genio di Chet Zar (noto per la prostetica creaturale applicata sui set di film come The Ring, Il Pianeta delle scimmie e Darkman).

Press kit a parte, Muschietti ci sembra attingere all’immaginario digitale di Ray Caesar più che a quello di Zar, non solo per l’attenzione al dettaglio, ai relitti di un’infanzia putrefatta e minacciata da una costante distorsione necrofora, filtro cognitivo che è presente in tutte le stampe dell’artista di origini Londinesi, ma anche per i processi di mutazione testurale che infestano pareti e oggetti mettendo insieme la fotografia di Antonio Riestra e la ricerca iconografica e “realista” della scenografa Anastasia Masaro; il risultato di alcune mutazioni dell’immagine da una definizione ai limiti del monocromatico al digitale, ricorda il percorso sulla materia tessile attivato dai metodi produttivi di Caesar, in quel passaggio da una dimensione tattile all’iper-realtà del modello digitale.

Questa affermazione e allo stesso tempo, negazione della “carne” di cui parlava Veronica Puglisi qui su Indie-eye in occasione di una personale dedicata a Caesar nel 2007 e allestita alla galleria Mondo Bizzarro di Roma, nel film di Muschietti riduce di molto il potenziale traumatico e ambiguo che attraversa quell’arte materica e immateriale, potenziando al contrario un sistema visivo e quindi scarsamente visionario, che non guarda in profondità nè si fa carico di una tridimensionalità intesa come passaggio, anche rituale, da una dimensione all’altra, aspetto che al contrario è vitale e inventivo nel recente e bellissimo Oz riscritto da Sam Raimi, film assolutamente “Lowbrow” nella contaminazione di molteplici storie dell’immagine riorganizzate in trasparenza da un’architettura frattale. Il film di Muschietti si ferma prima, al livello di un’inerzia decorativa proiettata sullo sfondo, un vecchio, vecchissimo cinema di ombre.

Approfondimenti

 Cos’è la Lowbrow art (di Roberto Balò)

Ray Caesar – Mondo Bizzarro Gallery – 2007 (di Veronica Puglisi)

 

Exit mobile version