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La Talpa di Tomas Alfredson: la recensione

Servendosi di un romanzo di John Le Carrè, Tomas Alfredson sembra aver voluto penetrare il sistema nervoso di alcune pellicole sul complotto prodotte dalla seconda metà degli anni 60 in poi ( da The Ipcress File a La Conversazione di Coppola) esasperando la cura degli interni, organizzando un set che non ha niente della ricostruzione “vintage” ma che al contrario tenta di descrivere un ambiente di perturbante intimità; l’opposto di quel “displacement” che ne La Conversazione metteva a rischio l’assetto di ogni spazio colpito e distrutto da furia paranoide e che nel film di Alfredson si manifesta con le caratteristiche di un sistema chiuso che accoglie un mondo parallelo e apparentemente sicuro di spie sottocoperta dove si sono consumate amicizie, ossessioni, passioni.

George Smiley (Gary Oldman), agente ormai in pensione, viene richiamato in servizio dai servizi segreti britannici per individuare la presenza di una talpa. E’ con questo elemento che Alfredson invece di uscire dal sottosuolo, rimane, per certi versi coraggiosamente, in un contesto dove l’esterno è quasi del tutto bandito, dilatando il tempo e concentrandosi sia sullo spazio fisico che su un ridondante utilizzo della parola per affrontare la descrizione degli eventi.

Lo stesso utilizzo di flashback cattura quasi sempre una dimensione intima, quasi a descrivere l’esistenza di un mondo autoctono che sopravvive in una dimensione parallela; Alfredson non spinge mai verso il “whodunit”, ma questo sfortunatamente non salva il film da un assorbimento totale in un mondo dalle immagini desaturate e spente, dove anche l’attenzione quasi pittorica ai dettagli materiali non riscatta un film verboso che perde completamente la strada.

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