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La versione di Barney di Richard J. Lewis (Usa, 2010)

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(La versione di Barney: è online anche la recensione di Sofia Bonicalzi)

La materia onnivora e fortemente autobiografica che compone l’omonimo romanzo di Mordecai Richler, viene sfrondata fino ad ottenere una commedia sentimentale sui generis, dominata in ogni fotogramma dall’approccio all’esistenza del suo strabordantemente ordinario protagonista, per quanto incentrata sulla passione matura, tenera e inconsolabile per la terza moglie Miriam. Nel passaggio dalla carta alla celluloide, si diradano sensibilmente le bordate ciniche e politically-uncorrect verso femminismo, mondo dell’arte, sionismo e vergetarianesimo, ma lo scheletro della vicenda rimane il medesimo: la rievocazione della vita avventurosa di Barney Panofsky, produttore di brutta TV canadese oltre che disincantato amante dell’alcool, delle donne e dell’hockey su ghiaccio. I tre matrimoni falliti alle spalle, la lunga parentesi bohemienne in Europa (Parigi nel libro, Roma nel film con l’aiuto della Fandango) e soprattutto l’accusa di aver ucciso il suo miglior amico e maestro di vita Boogie nella sua tenuta al lago, affiorano mano a mano dai ricordi di un Barney anziano e fiaccato dall’alzheimer. L’ironia feroce lascia posto ad un amaro sentimentalismo, la malattia, nel libro vero motore narrativo che fa ombra sulla veridicità della versione del protagonista, diventa semplice elemento drammaturgico, qua e là compaiono fastidiose macchie di folklore sulla solita visione americana dell’Italia, ma ciò che risulta ad operazione completata è comunque un prodotto hollywoodiano di altissimo livello, epopea sentimentale screziata di giallo e considerazioni esistenziali. Il personaggio del padre di Barney viene allargato in proporzione al romanzo per lasciar fluire sullo schermo il carisma sornione di Hoffman, che celebra a meraviglia il suo miglior ruolo di da almeno un decennio a questa parte. La regia, riposta nelle mani dell’affidabile manovale Richard J. Lewis, non riserva guizzi particolari, lasciando l’intero peso del film alla fisicità potentemente ordinaria di Giamatti, che si conferma principale incarnazione hollywoodiano dell’antieroe ironico e brillante anche nella dimensione del dramma.

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