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L’innocenza del Peccato di Claude Chabrol: la recensione

I titoli di testa e la dissoluzione infinita degli ultimi minuti  sono quasi sempre momenti di grande fascinazione e perdita  nel cinema di Chabrol.

La fille coupée en deux, neutralizzato nella versione Italiana con L’innocenza del peccato, titolo che elude la violenza di un’immagine non riconciliata e spaccata in due, comincia con una distorsione soggettiva di un viaggio in macchina sulle note della Turandot, visione virata in rosso trasformata in versione sempre piu grafica e solarizzata dell’immagine, qualcosa che ricorda il realismo  psichico che possiede l’occhio di Stephane Audran dopo l’ingestione di caramelle drogate nel bellissimo La Rupture.

E’ una fuga dal virtuale dell’immagine che introduce brutalmente l’ingresso nella falsificazione del reale con l’interruzione violenta delle note Pucciniane in un gesto di violenza antiromantica. E proprio con La Rupture, l’ultimo Chabrol condivide l’espansione dell’incubo nel tessuto familiare come origine di una perversità della visione. Il procedimento qui è molto meno esplicito e viene travestito con la funzionalità di una commedia che gioca con la dialettica desiderio/distruzione e la costruzione di un dispositivo della parola di una mobilità politica e morale davvero irresistibile; un gioco di specchi e falsificazioni che dal dialogo si riverbera sulla  messinscena.

Davvero il tessuto anche materiale è ricchissimo; viene in mente la doppia lisbona prima vista attraverso la finestra di un quadro fotografico, poi ri-vista da Ludivine Sagnier durante la farsa del suo viaggio di nozze, in una strana sovrimpressione temporale che la vede irrimediabilmente schiava delle apparenze. C’è davvero una comunanza dolorosa con la Hèlene de La Rupture, persa in un mondo crudele e falsificante al quale preferire la fuga disperata nella virtualità.

Ne la fille coupée en deux il falso procede per accumulazione di eventi, gesti, desideri che rimangono fuori campo, mai pronunciati sino in fondo, perversioni di cui non si può parlare, indecenze semplicemente alluse che scivolano sul volto vorace e ingordo di stupore di Gabrielle, donna tagliata in mille pezzi, sguardo che non riesce ad orientarsi nell’organizzazione del mondo, occhio inghiottito da altre percezioni.

Fuori dal mondo appunto, tagliata in due dal desiderio di vivere e da una brutalità che non le permette di esistere non può che trovar rifugio nel teatro di un illusionista, in una delle sequenze più belle di tutto il cinema di Chabrol, un’immagine letteralmente spezzata in due con il corpo di Gabrielle che viene segato e il suo occhio che guarda oltre, in attesa di una resurrezione digitale.

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