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Luc Besson: L’incontro con “The lady” mi ha cambiato come uomo e come artista

Trovare le giuste parole per descrivere la straordinaria missione umanitaria di Aung San Suu Kyi nella sua Birmania è impresa ardua. E spesso il cinema arriva laddove le parole risulterebbero sterili o ridondanti. Luc Besson  ci ha provato firmando  la regia di The Lady, che ha inaugurato l’ultimo festival del cinema di Roma e sarà da oggi nelle sale grazie alla distribuzione della neonata Good Films. La pellicola racconta appunto la straordinaria storia di San Suu Kyi (Michelle Yeoh) e di suo marito, Michel Aris (David Thewlis). Ma è anche il racconto epico della pacifica lotta della donna al centro del movimento democratico birmano. Nonostante la distanza, le lunghe separazioni e un regime pericoloso e ostile, il loro amore resisterà fino alla fine. Una storia di devozione e comprensione umana sullo sfondo dei disordini politici che continuano tutt’oggi. La stesura della sceneggiatura ha richiesto tre anni di lavoro a Rebecca Frayn, che attraverso interviste a figure chiave vicine a San Suu Kyi  è stata in grado di ricostruire per la prima volta la vera storia dell’eroina nazionale birmana.

Nella scelta di questo soggetto quanto peso ha avuto la vicenda politica e umana della protagonista e quanto invece l’idea di raccontare un’eroica storia d’amore?

Luc Besson: Basterebbe fare un giro nella rete per trovare materiale sulla vicenda politica di San Suu Kyi.  Conoscevo un po’ della sua storia pubblica ma non sapevo quasi nulla di quella personale e quando ho avuto occasione di leggere la sceneggiatura ho pianto per due ore, sono rimasto fortemente toccato dalla storia di questa donna eccezionale che sosteneva e si batteva per la non-violenza, una donna così minuta, di appena 50 chili che è riuscita a tenere testa per 25  anni a 300.000 soldati armati e  a fronteggiare questa dittatura sanguinaria semplicemente facendosi forza con l’amore: l’amore per il suo paese, per i suoi figli e per il marito. Credo che nella società in cui viviamo, carente di importanti simboli e punti di riferimento, raccontare la storia di una vera e degna rappresentante della razza umana fosse davvero molto importante.

In che modo ha personalizzato la sceneggiatura?

Luc Besson: La sceneggiatura era ben scritta ma a volte si avvicinava un pò troppo al documentario ed io volevo evitare questo tipo di approccio. Pertanto abbiamo passato alcuni mesi a rielaborarla per darle un senso più ampio e cinematografico. Volevo trovare il giusto equilibrio tra il ritratto della lotta politica di Suu Kyi  per la democrazia e quelle che ci immaginiamo essere state le sue sofferenze. Determinante è stato l’aiuto di Amnesty International che mi ha inviato una esaustiva e dettagliata documentazione.

Quando avete iniziato a lavorare al film, San Suu Kyi era relegata nella sua casa, pertanto è stato impossibile incontrarla. In che modo avete costruito il suo personaggio?

Luc Besson: E’ sempre frustrante raccontare la storia di un personaggio ancora vivente senza poterlo incontrare. Abbiamo fatto ricerche leggendo dei libri su di lei che ci hanno aiutati a comprendere meglio il suo incredibile destino. La sua storia può essere fatta risalire a suo padre, il Generale Aung San, il principale artefice della Rivoluzione Birmana che ha liberato il paese negli anni ’40 per poi essere assassinato insieme ai suoi ministri quando lei aveva appena 3 anni. Quando Suu Kyi ha riacceso la fiamma della Rivoluzione circa trent’anni dopo  ha potuto beneficiare  dell’aura di suo padre e il suo popolo l’ha eletta  a paladina della giustizia e della libertà del  paese e lei si è vista dolorosamente costretta a scegliere tra patria e  famiglia.  Per quanto riguarda la sua vita privata abbiamo intervistato persone a lei vicine come per esempio lo scrittore U Win Tin,rinchiuso in prigione per 25 anni e Zargana, l’unico attore comico birmano che è stato condannato a 45 anni per le battute ironiche sui militari durante i suoi spettacoli.

Ha capito subito che l’interpretazione della Yeoh sarebbe stata così intensa?

Michelle era totalmente assorbita dal personaggio ed ossessionata dal ruolo. Ha visionato più di 200 ore di video di Suu Kyi, che l’hanno aiutata ad acquisire la sua gestualità ed il suo accento. Inoltre è impressionante la loro somiglianza. Ha passato sei mesi a studiare i testi in birmano, in particolare il discorso originale di Shwedagon. Si è esercitata così tanto che a volte si fa fatica a distinguerla dalla vera Suu Kyi. Quando arrivava sul set al mattino, i duecento birmani attorno a lei si zittivano chiedendosi se fosse lei o meno, ed ogni volta lei era costretta, prima del ciak a ricordar loro che si trattava soltanto di ‘finzione’. Io stesso quando sei mesi dopo ho incontrato Suu Kyi, ho avuto l’impressione che fosse Michelle con vent’anni in più.

Era impensabile girare in un paese come la Birmania. In che modo siete riusciti a ricreare quelle ambientazioni in Thailandia e ricostruire la casa di Suu Kyi?

Luc Besson:  Ho trascorso diverse settimane da turista in Birmania e già dall’aereoporto qualcuno ha cominciato a seguirmi. E pensare che fino a 5 anni fa il visto durava solo pochi giorni.  Adesso la situazione è migliorata, ma se vuoi fare un giro o visitare il paese, puoi compiere solo determinati percorsi. Pertanto abbiamo deciso di girare in Thailandia, non lontano dal confine in un paesaggio che ricordava quello birmano. Tuttavia siamo riusciti a riprendere da tutte le angolazioni la Pagoda di Shwendagon, al centro di Rangoon e abbiamo ripreso gli attori con uno schermo verde alle spalle col quale potevamo coprire la pagoda. Abbiamo girato a Rangoon (con telecamera nascosta) e l’impressione è che il film sia realizzato interamente in Birmania, anche se in realtà si tratta solo di una trentina di riprese. In quanto alla sua casa era un elemento molto importante. Vi ha passato quattordici anni tagliata fuori dal mondo, senza linea telefonica, stampa o televisione. Abbiamo cercato foto degli interni della casa e abbiamo usato Google Earth per ottenere le dimensioni esatte, cercando di ricostruirla in maniera identica senza tra lasciare nessun dettaglio. Il pianoforte è della stessa marca di quello di Suu Kyi e le cornici delle foto dei suoi genitori sono identiche. Alcune persone che avevano avuto l’opportunità di visitare la casa si sono sentite disorientate, avevano l’impressione di entrare nuovamente in quella reale.

Come avete accolto la liberazione di Aung San Suu Kyi nel novembre 2010 durante le riprese?

Luc Besson: E’ stata una notizia totalmente inaspettata, era prigioniera da più di dieci anni consecutivi e infatti una delle ragioni per girare il film era ricordare al mondo questa donna e la sua lotta. La prima reazione è stata di entusiasmo poi è sopraggiunto il disorientamento. Stavamo girando il film per dare un contributo alla sua liberazione e ora venivamo a sapere che questo stava accadendo ancora prima della fine delle riprese. Quella mattina di Novembre 2012, avevo girato la sua prima liberazione del 1995: usciva dal cancello di legno, saliva le scale e salutava la folla in attesa. E quella stessa sera al tg ho visto lo stesso cancello, Suu Kyi vestita quasi allo stesso modo, con gli stessi fiori nei capelli, salire le scale e salutare…Era stato come se qualcuno avesse rubato il metraggio del mattino. Mi sono chiesto per un attimo cosa stesse succedendo e  se il film avesse ancora senso. Subito dopo sono venuto a conoscenza delle restrizioni alla sua libertà: se lascia il suo paese non può più farvi ritorno, non può esprimersi liberamente né organizzare assembramenti di persone. Ufficialmente il suo partito non esiste più. I suoi diritti fondamentali, nonostante la liberazione, sono stati calpestati. La conclusione è che il film ha mantenuto il suo significato. La stampa ha divulgato un  discorso di Suu Kyi: “Usate la vostra libertà per aiutarci ad ottenere la nostra”.

Come è andato l’incontro con San Suu Kyi? Ha visto il film?

Quando l’ho incontrata, dopo che è stata messa al corrente del progetto mi sembrava di stare di fronte a Gandhi. E’ impossibile non sentirsi piccoli e stupidi al cospetto di questa donna che irradia cortesia, gentilezza e semplicità. Nulla le fa paura. Per lei conta solo che il suo popolo sia libero di avere accesso in egual misura alle ricchezza del paese. Non ha interessi personali. E’ una lezione di umiltà. Vorresti sapere tutto di lei e lei non fa che chiedere di te. E’ curiosa e non le interessa scrivere un libro della sua vita. L’incontro con questa donna mi ha cambiato come uomo e come artista. In quanto al film non l’ha ancora visto. Mi ha detto che lo farà quando si sentirà abbastanza forte.

Crede che il film possa servire a sensibilizzare le coscienze?

Ciò che mi interessa di questo film, oltre alla Birmania e alle sofferenze personali di questa donna, è l’eco che potrebbe avere in tutti i paesi democratici. Molti giovani al termine di alcune proiezioni mi hanno detto che fino ad ora non si erano resi conto della libertà di cui hanno la fortuna di godere. Nei nostri paesi democratici nessuno va in carcere per aver letto un giornale. In Birmania praticamente non esiste libertà. Fino a poco tempo fa, se una persona veniva sorpresa con una copia del ‘Times’ in tasca, veniva arrestata. Ancora adesso, se qualcuno vuole trascorrere la notte non a casa propria, deve fare rapporto al commissariato di polizia. Se lo dimentica e se la polizia gli fa visita per un controllo e non lo trova, la punizione è sempre la prigione. Inoltre, in Birmania, la metà dei seggi rimanenti è occupato da ex capi dell’esercito. Non è più democrazia, è bensì la farsa di un paese che vuole sponsorizzare un’immagine democratica per attirare affari e turismo. Venti anni fa, il popolo birmano aveva espresso la propria volontà alle elezioni. Il partito di Suu Kyi, la LND, aveva vinto 392 seggi. I capi dell’esercito solo 7.  Ma i risultati delle elezioni non sono mai stati presi in considerazione. E’ nostro dovere osservare le nostre democrazie e controllare che la libertà di parola, i diritti umani e la costituzione vengano rispettati.

 

 

 

 

 

 

 

 

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