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Quando meno te lo aspetti di Agnès Jaoui

Con Au bout du conte, alla fine della storia, l’eclettica coppia Agnès Jaoui / Jean-Pierre Bacri (regia, sceneggiatura, recitazione) mette in scena un altro capitolo di quei contes morales che un po’ incantano, come le favole, un po’ respingono, come le storie che hanno il gusto amaro della vita. L’intreccio cresce, si dipana, sembra disperdersi in mille rivoli, quindi ritorna nell’alveo per poi ramificarsi  di nuovo, in una confusione di traiettorie tutte, apparentemente, governate dal caso. Nulla di più erroneo, sembra dirci Jaoui, che firma la regia, tout se tient, quante sono le storie che il caso, quello sì, mette insieme nella vita, tante le strade che prenderanno e che ognuno, inevitabilmente, imboccherà, perché sarà il suo genoma a comandare.
Un nuovo modello di determinismo post-freudiano? In un certo senso sì, se tra Laure e  Sandro, Pierre e Jacqueline, Guillaume e Fanfan, Cléménce e Julien si gioca l’eterna liturgia dell’amore e del tradimento, e con altri nomi e altre storie sarebbero sempre gli stessi personaggi, modelli standard di un modo o l’altro di essere uomini. Come sfuggire, allora, alla vuota e stanca ripetitività di un copione millenario?
Nella favola, risponde Jaoui, dove, se rischi di ritrovare gli stessi ingredienti, puoi sempre appellarti alla sostenibile leggerezza della fantasia e dire che tutti vissero felici e contenti (ma solo alla fine della storia, però, e quando meno te l’aspetti, come la felice convivenza dei due titoli del film, originale e versione italiana, dimostra).
Commedia brillante con retrogusto acre, mette alla prova il talento ironico degli autori nell’ optare per una critica sociale che non abbia l’aria di esserlo. Leggerezza  nel tocco e profondità nello sguardo, e le storie vere lievitano nella fiaba, la scenografia cartonata passa alla fotografia con abili dissolvenze,  tenerezze strazianti e verità indecorose riescono a convivere.
Laure (Agathe Bonitzer) e Sandro (Arthur Dupont) s’incontrano come nella favola di Cenerentola, ad un ballo, ma chi scappa a mezzanotte è lui, e perde il pesante mocassino nella fuga. Si ritrovano, si amano, si tradiscono, si lasciano, non si ritrovano, e intanto intorno a loro ruotano i mulini a vento della vita, a tracciare altri cerchi.
C’è la fatina buona che interviene con la bacchetta magica, è Marianne (Agnès Jaoui ) che sogna di fare l’attrice e intanto è alle prese con la recita dei bambini della scuola materna; c’è il bosco dove ci si perde e il lupo cattivo ha l’aria misteriosa e fascinosa di Maxime (Benjamin Bolay), tombeur de femme che guai leggere sms sul suo cellulare! (“se apri una porta che non dovevi aprire non lamentarti di quello che vedi” è l’estrema sintesi della sua morale); c’è la strega che si trasforma in matrigna bellissima con punturine di botox e c’è il padre, l’ intramontabile figura del senex  di plautina memoria, qui riciclato in chiave post-moderna, figura grigia, finto cinico pronto a crollare sulla spalla del figlio se la paura gli mangia l’anima (ma era solo superstizione, la sua, e la vecchia indovina che gli aveva predetto la data della sua morte sembra più una tenutaria di bordello d’antan che una seria Sibilla cumana).
Insomma una favola e una, anzi, più storie vere. Quelle di tutti i giorni, con il loro caos, i loro finalini strani, a volte, grotteschi, altre volte, cattivi e malati, non di rado. E, soprattutto, inattesi.

 

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