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Venezia 66 – Rec 2 di Jaume Balaguerò e Paco Plaza (Sp. 2009)

rec2_flyerBalaguerò / Plaza mostrano l’essenza sostanzialmente fumettistica dell’operazione innaugurata nel 2007, giocando tutte le carte del sequel, dell’auto-remake e anche del prequel, quel residuo di plot coagulato nella parte conclusiva del primo Rec qui si espande e diventa un virus generativo che riproduce se stesso con un aderenza molto precisa al gioco combinatorio utile per produrre un’infinita genia di derivati. Nell’ossessione di mostrare la frammentazione dello sguardo soggettivo, oltre a fare il verso senza alcuna vergogna a Diary of The Dead di Romero, era ovvio che si ricominciasse da capo, riavvitando il film su se stesso con un collante labilissimo che ci illude di ricominciare da dove eravamo rimasti. L’introduzione del prete esorcista in missione per qualcosa di “molto più grande” offre una variante di gustosa crudeltà politica che è un po’ la forza popolare del cinema di Balaguerò e la sua debolezza teorica; le sequenze dove il pastore della fede termina bimbi infetti e ne sacrifica due sani senza alcuna pietà fa coincidere l’occhio del diavolo con quello di Dio mostrando l’anelito verso la salvezza come una potente pantomima del potere. Un video-gioco, più che la convinzione di assistere alla creatività di un autore politico, uno sparatutto senza troppe pretese. Se il rigore Romeriano permette al cineasta americano di elaborare una lenta e inesorabile trasmutazione dell’immagine cinema nel suo doppio non-morto, collisione tra l’ansia di appropriarsi di una nuova camera-stylo e la sua iperrealtà digitale che si frantuma su quello che conosciamo dell’immaginario telepresente, Balaguerò non fa altro che riproporre batterie che si scaricano, CMOS che vanno in frantumi, il digitale più lento della retina oppure rivelatore dell’invisibile, fermandosi sulla superficie di quest’immagine, fidandosi solamente dell’effetto shock e di una tirannia della soggettiva che non riesce quasi mai a volare. E’ l’immaginario popolare che piace a chi ha preso una sbornia senza requie dalla lettura di due annate intere di Fangoria che anima la coppia Iberica; al tragico Romeriano si sostituisce la giostra ludica delle soggettive (è una scelta, ci mancherebbe), la sarabanda del reality pre-progammato, l’occhio digitale che forzatamente è obbligato a mimare la casualità, la sindrome di Cloverfield.
Un genere, inghiottito dalla sua (auto)genericità; il secondo numero di un albo molto divertente.

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