Home festival River To River – Florence Indian Film Festival – Maaty maay (a...

River To River – Florence Indian Film Festival – Maaty maay (a grave-keeper’s tale) / di Chitra Palekar

A integrazione di questo articolo, è possibile vedere il video di 20 minuti con l’incontro di Chitra Palekar con il pubblico del Gambrinus, filmato il 9 dicembre del 2007; per vedere il video è necessario seguire questo link

Pregiudizio e caste, maternità voluta e subita, poi negata. Chitra Palekar, già autrice, produttrice e sceneggiatrice qui al suo primo film da regista, getta uno sguardo sui retaggi dell’India odierna attraverso una storia di fantasmi innocenti ambientata negli anni ’50; come precisa essa stessa, in realtà la dimensione spazio-temporale sembra essere sospesa, avulsa da ogni referente contestuale preciso se non quello del Mito e della Mistificazione di questo.
L’idea nasce da un racconto di Mahasweta Devi, scrittrice impegnata molto famosa in India, dal titolo Baayen (Strega), che la Palekar ha tradotto dal Bengali al Marathi, lingua che appartiene all’ambiente in cui è nata e cresciuta. Come ha detto in un intervista rilasciata al Toronto film festival, dove il film è stato presentato nel 2006: “I realised that In India we may speak different languages, wear different clothes, and locations may differ a bit, but the basic pattern of behaviour is the same. In that sense we are very much one.”
Ambientato in un villaggio dell’India centrale, Amravati, – la grande difficoltà è stata riuscire a trovare un luogo vasto non ancora toccato dalla civilizzazione- il film, completamente autoprodotto, può contare sulla partecipazione di due star di Bollywood, (a questo si deve probabilmente il look patinato di alcune scene) i protagonisti Nandita Das (Chandi) e Atul Kulkarni (Narsu), mentre il resto del cast è composto interamente da esordienti raccolti nei pressi del villaggio, compreso il ragazzino nei panni di Bhagirath (Kshitij Gavande) .”I required fresh faces to give an authentic look to the film”.
Il motivo magico dominante è il binomio Madre – Morte, morte accettata come elemento naturale e mestiere ereditato difficile da rinnegare, ma complicato dalla maternità (Chandi, la protagonista, seppellisce i cadaveri dei bambini, come faceva suo padre e suo nonno prima di lui), madre-morte disprezzata e sfruttata (il marito di Chandi, dopo averla ripudiata accusandola, insieme a tutto il villaggio, di essere una strega, arrotonda lo stipendio vendendo le ossa dei morti), madre rimossa e poi ritrovata (il figlio non ha una madre, poi accetta di avere come madre una strega, infine, una volta morta, ne riscatta l’identità davanti ad una comunità ottusa e schematica).
Maaty maay è attraversato da richiami al genere horror-mistery di matrice europea, con un flashback-racconto che scioglie gradualmente la tensione svelando che sotto alla presenza di uno spirito maligno si nasconde la più consueta delle misinterpretazioni: la diversità vista con gli occhi della superstizione produce il linciaggio pubblico, e la donna, essere indifeso nella società indiana dell’epoca è la vittima privilegiata; purtroppo ancora oggi, da qui il significato dell’annullamento temporale che il tono da sogno lucido del film suggerisce.
Preda del doppio rimorso nei confronti del figlio appena nato che non vuole portare con sé al cimitero- in India tutte le donne appartenenti alle caste più basse lavorano e usano portare con sé i neonati, non potendo permettersi delle badanti- e nei confronti dei suoi avi che le hanno affidato un così sacro compito, Chandi cede psicologicamente e praticamente alle accuse di chi la crede un ghoul- declinazione indiana di una figura presente in varie leggende, dai paesi arabi alla Cina, e cioè un essere maligno che si nutre dei cadaveri dei bambini e a sua volta li nutre col suo stesso latte. Alla fine si convince di essere ciò che gli altri vogliono che sia.
L’atmosfera desertica dell’ambientazione crea un parallelo perfetto con le cantilene roche e soavi insieme di questa creatura ibrida dalle labbra secche, i capelli stepposi che contrastano con il loro splendore del ricordo. Emblema della donna normale è anche la sua bellezza, che corrisponde esattamente con l’accettazione degli altri e di sé-il marito ed il figlio ne rimpiangono la bellezza forse più di ogni altra cosa.
Chandi, intrappolata in un luogo di non morte-cantando la disperazione di non poter morire mai- alla fine per salvare vite altrui che non conosce muore davvero, rivelando la sua umanissima natura di donna reietta.
Una parabola forse fin troppo chiara di come vanno le cose, con aggiustamento finale che pareggia seppur minimamente i conti: il filgio si appropria di questa identità fino ad allora sospesa nel limbo, e la restituisce all’equivoco, quando ormai è troppo tardi.

Exit mobile version