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The Rum Diary – cronache di una passione di Bruce Robinson (Usa, 2011)

 “Here is like a woman you fucked,

and is still under you.”

 

Il grande romanzo portoricano. Ecco cosa cercava di scrivere Hunter S. Thompson durante il suo periodo a San Juan. E se provo a immaginarmelo, il grande romanzo portoricano, lo vedo così: arrugginito, sporco, gonfio di acqua marcia. Malsano. Johnny Depp non è decisivo, e porta i capelli troppo lunghi, sorride troppo spesso e in un paio di occasioni rinuncia al rum. Ma quello che lo circonda, questi Caraibi corrotti che dai cinquanta piani di un grattacielo che oscura il mare si buttano in picchiata nel ring dei galli da combattimento, sono esattamente quello che mi sarei aspettato. Una visione distorta dal fondo dei bicchieri del sogno americano, che sembra voler preludere – a volte troppo esplicitamente, vedi la sequenza della lingua – alla pellicola sorella in pectore Paura e Delirio a Las Vegas. La prima volta che Depp vide Thompson, all’inizio di un’idilliaca amicizia tra quelli che possono essere considerati due geni dell’eccesso, fu in un saloon del Kentucky. Hunter si presentò, tre ore in ritardo, facendosi largo tra la folla con un taser per il bestiame, in una letterale cascata di scintille. L’essenza di questo film. Qualcosa di tanto atteso, che inizia con un esplosione, ma che va via via scemando attraverso gli scossoni e gli sconquassi di una vita sregolata, ancora in tempo per essere salvata. Sappiamo che non andrà così, e nemmeno gli occhioni della sirena Amber Heard, o le prese di posizione filo-democratiche e populiste, basteranno a trascinare Paul Kemp – uno degli pseudonimi di Thompson – fuori dalla spirale convulsa che qui sembra avere inizio. Evocativa in questo senso la didascalia finale: questa è la fine di una storia e l’inizio di un’altra. La storia della non-ascesa e del non-declino del giornalista più maledetto d’America, a Portorico.

Micheal Rispoli è una buona spalla, disilluso e impacciato come chi è in un posto da troppo tempo e non ha il coraggio di andarsene. È come una donna che ti sei scopato, ma è ancora sotto di te. Sua la più bella battuta del film. A essere veramente immenso, però, è Vanni Ribisi, reporter alcolizzato, nazista nostalgico di origini scandinave, pazzo scatenato. Con venti battute in tutto riesce a sintetizzare il senso di decadenza incontrollata e insensata della serie di esperimenti fallimentari che fanno rimbalzare i due protagonisti tra una disgrazie e l’altra, rendendo la pellicola piacevole e degna di un biglietto al botteghino. Hunter è morto nel 2005 come aveva vissuto, improvvisamente. Questo è uno dei modi per ricordarlo, più che valido.

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