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The sessions – Gli appuntamenti di Ben Lewin

the sessions - gli incontri - di ben lewin

Quando Ben Lewin ha cominciato a lavorare alla sceneggiatura per The Sessions nel 2011, il titolo provvisorio era ancora “The surrogate“, quasi a mantenere un legame stretto con il lungo articolo letterario scritto da Mark O’Brien per The Sun e intitolato appunto “On Seeing A Sex Surrogate“. The sessions è un vero e proprio adattamento dal testo di O’brien, giornalista e poeta colpito dalla poliomelite, la cui vita, dal 1995 fino al giorno della sua morte, si è consumata per molte ore al giorno all’interno di un polmone d’acciaio. Dall’articolo dello scrittore del Massachusetts, Lewin desume più o meno tutta la scansione cronologica degli eventi che vanno dal 1986, anno in cui O’brien comincia a scriverlo, fino al 1990, data di pubblicazione sul Sun, ma sviluppa una scrittura verticale di approfondimento su alcuni personaggi, solamente abbozzati nel testo originale, come per esempio la figura di padre Mike, “giovane prete cattolico con una barba folta” che nel film di Lewin diventa Padre Brendan, interpretato da un notevole William H. Macy. Padre Brendan non ha la barba, ma una folta chioma di capelli, fuma, beve birra e diventa il centro di una serie di conversazioni sulla sessualità e la fede con Mark (John Hawkes), come se Lewin dalle poche righe scritte da O’Brien si fosse immaginato un sacerdote fuori dalle convenzioni alla ricerca della misericordia di Cristo e pronto ad imparare dall’esperienza emotiva delle sue anime più che il garante di una serie di regole impermeabili. È proprio con padre Brendan che Mark cerca di elaborare il suo senso di colpa rispetto alla sessualità; il suo corpo incatenato non gli consente di esprimerla a pieno, se non attraverso un filtro umiliante che è quello del contatto funzionale con alcune badanti, dove alla sfera affettiva si sostituisce quella pratica del lavaggio del corpo; Mark sperimenta alcune reazioni come l’erezione o l’eiaculazione in una prospettiva mortificante. Mentre l’inclinazione del suo corpo gli consente di farsi guardare da un’immagine mariana con il cuore trafitto, la sua terapista gli consiglia di ricorrere ad una specialista del sesso, non certo una prostituta, ma un’esperta di conoscenza del corpo con una specializzazione scientifica, il cui scopo non è quello di provocare piacere quanto di risvegliare consapevolezza e conoscenza carnale. Lewin ha probabilmente osservato con attenzione tutti i riferimenti appena allusivi del breve testo di O’Brien, lavorando sui personaggi marginali e creando delle aperture, talvolta impercettibili, su una sceneggiatura sviluppata per blocchi, tanto che il risultato ricorda l’iper-realismo fumettistico di Daniel Clowes (Ghost World, David Boring, Ice Haven, The Death Ray) nella staticità del quadro o della “striscia” autosufficiente in un contesto narrativo più complesso, che sviluppa non solo una traccia orizzontale, ma una serie di derive legate a personaggi o piccole epifanie “Carveriane” che emergono dallo sfondo; non è solo l’episodio di Amanda (Annika Marks), la prima badante a cui Mark dichiara il suo amore, elemento di raccordo importante che emerge dal breve scritto di O’Brien, ma anche la presenza di alcuni testimoni esterni, come la ragazza in preghiera nella chiesa di padre Brendan, colta da Lewin in uno stato tra contrizione e una perversa voglia di ascoltare le confidenze sessuali di Mark durante le sue confessioni davanti all’altare. Se il rischio quindi è quello di un bozzettismo Alleniano, complice anche una serie di motti di spirito ben scritti e fulminanti, il cui pericolo è sempre quello di un assorbimento dell’immagine al potere di una parola troppo intelligente, Lewin non scivola mai nella retorica e realizza un onesto cinema di corpi e azioni minime a tratti sorprendente. Il corpo bianchissimo di Cheryl, la terapista cinquantenne interpretata da Helen Hunt, la cui nudità, a fianco di quella di Hawkes assume un valore positivo e allo stesso tempo degenderizzato, è filmato durante le sessioni con quella distanza necessaria che diventa poco a poco un esempio di partecipazione emotiva osservata da una prospettiva impressionista. Se le uniche sequenze sinestetiche, dove l’immaginario di Mark produce “visivamente” tutte le sensazioni legate al tatto di Cheryl in una sequenza che sembra un sincero omaggio a “e johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo, rischiano di risultare ingenue, Lewin mantiene comunque una prospettiva rigorosa per tutto il film, lasciando che la visione nasca dalla composizione del quadro. Da alcune indicazioni presenti nell’articolo di O’Brien, per esempio, sul percorso di conversione di Cheryl dal cattolicesimo all’ebraismo, il regista di origini Polacche  si inventa una bellissima sequenza dove Helen Hunt entra in una Mikvah per il bagno rituale; con la consueta prospettiva ottica, Lewin lavora su più livelli elaborando una dinamica ambigua, da una parte Helen Hunt, interrogata da Rhea Perlman sul suo lavoro, mente, rispondendo “faccio la casalinga”, dall’altra la signora della Mikvah (la Perlman) rimane piacevolmente colpita dalla naturalezza con cui Cheryl affronta la sua nudità prima dell’immersione nella vasca, alludendo così ad un aspetto che ha infastidito la stampa Cattolica americana, su una diversa percezione del corpo da parte delle due religioni, quella Cattolica e quella Ebraica. Ma più che alla superficie del dissidio, che non ci interessa, ci riferiamo al modo in cui Lewin gestisce queste sospensioni allusive del senso, basta pensare a quella tra l’impenetrabile Vera (Moon Bloodgood) e il receptionist del motel (Ming Lo) oppure al rapporto tra Cheryl e il marito (Adam Arkin) filmato da Lewin con altrettanta, apparente, fissità e allo stesso tempo con quella libertà che consente agli attori di rimanere in quello spazio possibile tra detto e non detto, interrompendo la linea assertiva di un gesto.

 

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