Home 3D la terza dimensione Up – di Pete Docter e Bob Peterson

Up – di Pete Docter e Bob Peterson

Il talento visionario di Pete Docter interviene in modo chirurgico sull’immaginario Disney e all’interno di Up l’operazione porta i segni della scrittura; come per Monsters & Co, il viaggio non è solo dentro il corpo del cinema d’animazione Americano (Chuck Jones, Tex Avery…) ma si rivela attraverso la reinvenzione continua e instabile dei caratteri e soprattutto con il contrasto tra la bidimensionalità degli oggetti e uno spazio dato come tridimensionale solamente a partire dal margine dello schermo fino alla profondità più lontana possibile dal punto di vista dello spettatore.

Una scelta quasi contemplativa che delude i fan del 3D più estremo; rispetto all’imminente ultimo Zemeckis, realizzato in un magniloquente IMAX 3D, Up dichiara sin da subito la sua impostazione centripeta, non uscendo quasi mai dal quadro della memoria, sfoglia un album di ricordi introducendo la rivelazione dello stupore non solo come dinamica verticale dello sguardo, ma penetrando nel cuore di un movimento orizzontale.

Se il 3D che arriva dritto in faccia è spesso un cinema dalle superfici piatte e gonfiate, la scelta Pixar di esplorare una dimensione al di là dello schermo è al contrario legata ad un’idea molto precisa di profondità; in Up il rapporto tra i primi venti minuti, sintesi straordinaria e commovente che già da se include un piccolo film autoctono, e l’avventura di Carl Fredricksen verso le cascate paradiso, comunicano tridimensionalmente con il mondo della memoria sino a percorrere una parabola che procede continuamente per salti, avanti e indietro, dal disegno di Ellie sui ritagli di giornale direttamente all’immagine del vecchio Carl che trascina la sua casa con un tirante, leggera come un ricordo.

In questo paesaggio astratto, dalla profondità Magrittiana, tutti gli ingredienti del cinema antropomorfo Disney anche più recente vengono irrisi, massacrati in un gioco di costante inversione del senso che ricorda gli esperimenti “autoritari” di Chuck Jones sul povero Duffy Duck; quella sovrapposizione esilarante tra i cani e la loro facoltà di parola resa possibile da un dispositivo artificiale è una vertiginosa stratificazione tra un immaginario dato come acquisito e la sua dissoluzione in una maschera straniante, in fondo altro non è che la capacità di recuperare lo spazio di una visione attiva, dove i caratteri di una fantasia ormai globalizzante vengono restituiti al dinamismo anarchico di un mondo sotto-sopra, continuamente dis-inquadrato e sdoppiato nell’invenzione continua di gag che non si arrendono semplicemente all’intelligenza della battuta ma travolgono messa in scena e spazio come un vortice tra le dimensioni del disegno.

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