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Venezia 67 – Concorso – Norwegian Wood di Anh Hung Tran (Giappone, 2010)

Norwegian Wood è forse il film più gelido di Anh Hung Tran, girato interamente in HD per limitare la bellezza delle immagini, come ha dichiarato in più occasioni il regista franco-vietnamita, è immerso nei suoni della psichedelia dronica composta per il film da Johnny Greenwood e a tratti difficilmente distinguibili da una tracklist prelevata quasi interamente dalla discografia dei primi CAN di Czukay/Karoli/Liebezeit, una scelta curiosa che oltre a raccontarci qualcosa che potevamo intuire riguardo ai gusti di Greenwood, accresce quel senso di inquietudine e di scollamento dell’immagine dalla cornice di una produzione che in qualche modo appare come colossale, anche nelle intenzioni di una sintesi intima e virtuale di più pezzi di storia del cinema Giapponese.

È la forza e la debolezza del film di Ann Hung Tran, cimentarsi con un romanzo di formazione dalle stratificazioni complesse in una ricerca dello stile che mette insieme memorie cinematografiche diverse, a volte in contrasto tra di loro, muovendosi tra tradizione e contemporaneità con un occhio che aderisce e allo stesso tempo si tiene fuori dal cinema a cui si riferisce. E’ molto interessante in questo senso il lavoro sui piani sequenza, perseguito con una forza spettacolare che è si invisibile ma che in un certo senso sembra uno scanning esterno su spazi che ricordano Ozu, il deambulare Narusiano, la gioventù crudele di Oshima in quella perdita delle coordinate sensoriali che ritorna in molte sequenze di Norwegian Wood, una tra tutte, l’autismo di Watanabe quando viene travolto dai lati opposti di una manifestazione studentesca.

Questo raffreddamento minimale  che introduce il digitale spesso in modo brutale, fuori dalla patina di superficie, e un lavoro sulla musica che mette insieme emuli e ammiratori delle ricerche sui suoni “concreti” di  Pierre Schaeffer, sembra una scelta espressionista ben precisa, molti dei suoni della natura e del rapporto tra spazi e corpi viene sovrastato dai drones e da una prospettiva che bruscamente da naturalistica diventa mentale.

La sequenza in cui Watanabe si lascia travolgere da tutto il senso di morte che lo minaccia sin dall’inizio viene filmata da Anh Hung Tran con una forma ambiguamente documentaristica, cambiando nuovamente stile e tenendosene allo stesso tempo a distanza con un utilizzo della musica che sovrasta tutto il resto, persino le urla; una connotazione che torna in quasi tutte le scene di dolore estremo dove i suoni elettrici diventano grido duellando con quelli della natura.

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