Home festivalcinema Venezia 67 – Orizzonti – La Belle Endormie di Catherine Breillat

Venezia 67 – Orizzonti – La Belle Endormie di Catherine Breillat

Comincia quasi con un’enunciazione Sadiana l’ultimo film di Catherine Breillat, il secondo che penetra l’immaginario narrativo della fiaba classica; è una controversa lettura della maternità sopportata come una maledizione che introduce il calvario di Anastasia alla ricerca delle origini del desiderio, un viaggio tra abiezione e riconoscimento che ha attraversato tutta la filmografia della regista Francese ma che con gli ultimi suoi tre film (Une vieille maîtresse, Barbe Bleue e questo La Belle Endormie) si apre su uno scenario temporale di proporzioni Storiche.

Barbe Bleue in fondo potrebbe essere considerato come il miglior adattamento di Bloody Chamber, uno dei racconti di Angela Carter dove innocenza e moralità vengono osservate attraverso le increspature dell’ordito fiabesco, un gioco di slittamento del senso che racconta meglio di altre forme conosciute quello per niente divertente del desiderio e dell’orrore identitario dove il testo della tradizione riacquisisce tutto il potenziale combinatorio e aperto del racconto orale.

È una suggestione che oltre ai processi di decostruzione, ci interessa sottolineare proprio per quella semplice e complessa deriva che è anche il folktelling personale e interiore, il diritto alla variazione e alla perversione, un affare (anche) dello sguardo, strapparsi un occhio e cambiare la fissità vitrea e violenta del punto di vista.

Le sedimentazioni che la Carter fa collidere e avvita su se stesse diventano per la Breillat occasione per staccarsi dal corpo fantastico e percorrere quello storico; il XIX secolo di Une vieille maîtresse, il XVII di Barbe Blue e le aporie di un vero e proprio While Away ne La Belle Endormie, il più radicale di tutti. E se da una prospettiva intimamente filosofica la Breillat è per chi scrive ancora vicina alla Carter, lo è in modo sottile, sorprendente e con una virata che toglie il fiato.

L’innesto di Bram Stoker e del vampirismo sessuale in The Lady of the house of love, il racconto della scrittrice Inglese che smembra il corpo della Bella Addormentata di Perrault, lascia il posto ad un incubo che mette allo specchio due dormienti, come se nella linea spietata di una donna che attende il risveglio per bocca di un principe si aprisse con violenza il grido di un sogno palindromo che parla di altri infiniti risvegli.

Anastasia dorme e agisce su un complesso strato temporale e si trova improvvisamente a ripercorrere gli spazi della Regina delle Nevi di Andersen, che la Breillat segue sorprendentemente come possibilità di liberare più testi nello stesso testo, un tentativo che in Barbe Bleue era, forse con una separazione più tradizionale, semplicemente spaccato in due dal narrato di Marilou Lopes-Benites e Lola Giovanetti, due bimbe “contemporanee” che si confrontano con l’abiezione che la Fiaba di Perrault, o meglio, la sua percezione, vorrebbe dischiudere.

La Belle Endormie supera questa impermeabilità del tempo e ci viaggia dentro, avanti e indietro, sovrapponendo in un percorso complesso la ricerca interiore al cancro della Storia, una metastasi che diventa esempio potentissimo di cinema ancora capace di rappresentare il viaggio fantastico come salto e arricchimento del senso; un frame dentro un altro frame, dentro un altro frame dall’acuminata profondità Storica e filosofica.

Dormire e sognare che l’attesa possa trasformarsi in attraversamento; risvegliarsi dall’attrazione verso un mondo-tomba che altrimenti disintegrerebbe Anastasia nell’accettazione di un desiderio indesiderato.

La Regina delle nevi, in questo senso, è un geniale rovesciamento della Bella Addormentata e la Breillat ci aderisce con la stessa infedele fedeltà che rendeva Barbe Bleue un horror sull’anatomia distruttiva del desiderio. Come in un romanzo di Joanna Russ o come la Marie di Godard, l’unica possibilità per Anastasia di appropriarsi del proprio destino è farsi nomade, una viaggiatrice del tempo che approda in un presente fragile, il doppio, triplo Risveglio (Anastasia Peter/Johan) sarà un tentativo traumatico di penetrazione dei due mondi: “ti ho già fatto entrare nel mio, guarda cosa hai fatto”, dirà Anastasia a Johan, in un vertiginoso riconoscersi e disconoscersi dove per Breillat la conoscenza carnale tra uomo e donna, attraverso i secoli, è semplicemente una storia di violenze, basta pensare all’approdo di Anastasia nel suo nuovo risveglio “contemporaneo” dove Johan presume di liberarla dal giogo dei lacci che assicurano il corpetto.

È un’immagine semplice e bellissima, di una complessità interiore e Storica davvero enorme, dove Breillat persiste sui segni del corpo e dove la coazione a ripetere di colui che ha il potere di risvegliare è in realtà una tragica ipostatizzazione di un eroe senza più regno, perché ci chiediamo chi sia veramente a risvegliarsi.

La conclusione, come in quasi tutto il cinema della Breillat, è un alibi per rovesciare la catarsi nel gesto violento e quasi “surrealista” di un racconto che si interrompe brutalmente come la fine di un incubo dentro un secondo incubo. In fondo, quella della cineasta francese è una filmografia fatta di risvegli brutali dove ai martelli, alle coltellate sul corpo femminile, alle teste mozzate, qui viene applicato un taglio con l’inaudita violenza del sogno mostrando lo strappo di una calza e il sangue causato dai graffi su una schiena nuda; immagine di staticità fotografica congelata nel tempo.

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