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Venezia 68 – Concorso – Quando la notte di Cristina Comencini (Italia, 2011)

Cristina Comencini filma nuovamente uno dei suoi romanzi e sembra farlo annusando quel baratro potenziale che si spalanca dentro il nido famigliare, filtrato sempre più frequentemente attraverso il racconto deformato della cronaca. Quell’amnesia, tra volontà e perdita di se, che colpisce Claudia Pandolfi quando non riesce più a sopportare il pianto di suo figlio “che gli buca il cervello come fosse una lama” fa pensare all’elaborazione intima di un orrore che potrebbe scatenarsi da un momento all’altro in tutta la sua violenza distruttiva. Avrebbe potuto essere uno stimolo visionario di una certa forza, lontano dall’istantainetà falsificante dei media e più vicino ad un racconto interiore fatto di scarti, amnesie, stati di trance, nella possibilità di filmare l’impercettibile confine tra follia e quotidianità. Sfortunatamente non è questo il film di cui stiamo parlando;  Quando la notte brancola in un terrore panico rispetto a corpi, gesti, movimenti, disfunzioni dolorose della memoria, la preoccupazione della Comencini sembra quella di suturare ogni immagine, impedendo ai suoi attori di andare oltre una rappresentazione superficiale dei sentimenti. Come accade in molto cinema italiano ombelicale, la parola serve a colmare il vuoto prodotto da qualsiasi forma d’ambiguità dell’immagine, come se questa fosse un peccato originale da esorcizzare, come se fosse necessario convincere lo spettatore su quello che sta vedendo, esattamente come un ex amante che sbatte sul tavolo autoptico tutto quello che non va, o che crede non possa andare, cercando di dare un nome all’indicibile e assumendo posizioni autoritarie, grottesche, involontariamente ridicole. Non si tratta di capire corpi e immagini che non vogliono esser compresi; il loro autore sa già tutto e probabilmente va bene così.

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