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Venezia 69 – Fuori Concorso – Du Hast es versprochen (Forgotten) di Alex Schmidt (Germania, 2012)

Du hast es versprochen (Forgotten) è, secondo il regista Alex Schmidt, il “connubio tra un thriller psicologico e un film d’orrore e mistero”. Due amiche d’infanzia, Hanna e Clarisse, si ritrovano dopo anni e decidono di visitare l’isoletta dove da bambine erano solite trascorrere l’estate. La placidità della vacanza è però interrotta dal ricordo rimosso di una tragedia, un trauma che si riproporrà a Hanna e coinvolgerà anche la figlia Lea. Il film di debutto di Alex Schmidt si distingue per la voglia insistente di districare l’ordito narrativo, privando la storia della seppur minima imprevedibilità. Questo atteggiamento, di assoluta importanza per la creazione di un sostrato teso e spasmodico, contrasta però con le tinte fosche e misteriose cui il regista sembra essere inclinato: il risultato è che viene meno il suspence di cui un thriller (soprattutto se intriso d’orrore) abbisogna. Du Hast es versprochen predilige l’atmosfera al ritmo, giocando su un intreccio di motivi che vanno dalla favola dark al b-movie. Colpisce la somiglianza con un film in concorso all’ultima Berlinale, Dictado (Childish games) di Antonio Chiavarras (qui la conferenza stampa del film). In entrambi i film fuoriesce la mistione di influenze stilistiche, ma al tempo stesso viene meno l’attenzione alla comunicabilità degli eventi; l’avviluppo dei fatti è talmente tratteggiato da vanificare la ricerca di un qualunque effetto scenico, seppur basilare. Questa particolare stortura è manifesta nel caso di Alex Schmidt, dal momento che costruisce il personaggio di Hanna sulla base di una contingente crisi di coppia: la ricerca di un situazionismo tipico del dramma familiare blocca ogni altra esigenza di genere, finendo così per minimizzare il sistema espressivo thrilling. In questo senso il ricorso a composizioni musicali fin troppo emozionali aumenta l’impressione di stucchevolezza che le scene – anche le più suggestive – finiscono per suggerire. A questo si aggiunge una violenza che vorrebbe imporsi con insistenza allo sguardo dello spettatore, ma che invece si rivela sterile, come se nell’atto di compiersi fosse osteggiata dalla telecamera. La mutilazione dell’immagine violenta è colmata dalla predilezione che il regista nutre per il fiabesco, che si costituisce sotto forma di nenia nei flashback della protagonista. Schmidt decide inoltre di scrivere un racconto “antipatico”, all’interno del quale le eventuali aspettative del pubblico devono necessariamente essere sbugiardate: per il regista tedesco sembra non esistere la legge del giusto e condanna i suoi personaggi ad epiloghi controversi. L’intenzionalità di queste scelte non riesce però a coinvolgere e degenera nel finale, quando il film capitola con un deprecabile finale aperto, quel mezzo che in tanti gloriosi horror voleva dire possibilità di sequel. Una prospettiva che, nel caso di Du hast es versprochen, risuona davvero agghiacciante.

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