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Breeder di Jens Dahl: recensione

Jens Dahl dirige Breeder, torture porn sullo sviluppo di una terapia costosissima capace di ringiovanire. A farne le spesse, donne povere e immigrate. Visto al Torino Film Festival 2020

Breeder è il film del regista danese Jens Dahl sviluppato attorno ad una terapia rivoluzionaria, capace di ringiovanire la vita biologica delle persone. Il costo del trattamento miracoloso è elevatissimo e a farne le spese sono le cavie della discarica sociale contemporanea: donne povere e immigrate.

Breeder è l’horror di Jens Dahl presentato al Torino Film Festival 2020. La recensione

Nella sezione dedicata ai commenti di questo Torino Film Festival virtuale, qualcuno, lodando Breeder, lo ha definito un torture porn. Breve glossa: con torture porn (classificazione critica tutta statunitense, nata intorno ai primi anni del nuovo millennio) si intende un genere cinematografico focalizzato sul sadismo, ricco di nudità e con una rappresentazione particolarmente esplicita della violenza. Rientrano ad esempio nella categoria i vari Saw, i vari Hostel e i tanto chiacchierati Martyrs e A Serbian Film. Ma pure Salò di Pasolini è di fatto un torture porn (anzi, è da molti considerato l’antenato nobile del genere).

Lo è anche il film del danese Jens Dahl? Non lo si può negare, anche se il minutaggio effettivamente dedicato alla tortura è tutto sommato piuttosto limitato, e nonostante la grande crudezza non è paragonabile al parossismo truculento di certi film ad esso omologhi; se questo sia un pregio o un difetto spetta al gusto del singolo spettatore decidere.

In Breeder la violenza vuole esprimere un senso, e alla costruzione di questo senso Dahl si dedica.

Mia è un’atleta, giovane ma non più giovanissima, il cui marito sessualmente deficitario è un ricco consulente finanziario che sostiene una ricercatrice al lavoro su un trattamento capace di ringiovanire di decenni i pazienti. Una terapia miracolosa e quindi costosissima, destinata solo ai clienti più facoltosi. Non serve essere esperti di torture porn per intuire che per curare i ricchi al laboratorio servono cavie: donne, immigrate, povere.

Violenza di genere e violenza di classe si mescolano in un film che vuole raccontare un po’ troppo, perché Dahl butta in mezzo discorsi sull’etica della scienza, sui rapporti sociali e su quelli umani e la sua critica alla contemporaneità per quanto impetuosa non è sempre centrata.

Dopotutto il torture porn non è noto per la raffinatezza e la fotografia così contrastata di Breeder, con i suoi neri tanto profondi da cancellare parte delle immagini, sembra voler confessare la propria consapevole mancanza di ricercatezza.

Qua e là Dahl si concede comunque qualche finezza. “Il cane”, l’assistente/torturatore della ricercatrice, un bruto del cui sadismo si serve la donna, spicca sugli altri personaggi per l’intelligenza con cui il regista lo usa per alludere, senza tematizzarla, alla questione delle relazioni di potere in una società gerarchica, come sotterraneamente è la nostra. E c’è anche un finale che rimanda piuttosto chiaramente a Le baccanti di Euripide, a testimoniare la cultura proteiforme di Dahl.

Breeder dunque è in bilico tra la rozzezza che di solito appartiene al genere in cui rientra e uno sguardo più acuto, più raffinato. È proprio questo a renderlo un film riuscito.

Pur non potendo certo considerarsi tra i migliori nel suo filone (senza andare a scomodare i classici anche solo un film come Goodnight Mommy dava al pubblico qualcosa in più), si eleva sopra la media. Non tutto funziona, ma quel che funziona regala emozioni agli appassionati senza dimenticarsi di lasciare qualcosa anche agli altri spettatori.

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Marcello Bonini nasce a Bologna nel 1989. Insegnante, fa il montatore per vivere. Critico Cinematografico, ha scritto per diverse riviste di cinema e pubblicato una raccolta di racconti. Fa teatro e gira cortometraggi.
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