Home alcinema Kingsman – Secret Service di Matthew Vaughn: la recensione

Kingsman – Secret Service di Matthew Vaughn: la recensione

In un momento in cui l’ibridazione più sfrenata sembra la formula vincente per rilanciare l’immaginario di genere, basta pensare ai recenti Big hero 6 e ai Guardiani della galassia, Matthew Vaughn cerca di estremizzare, almeno in superficie, il lavoro fatto con “Kick Ass” e con il successivo “X-Men – L’inizio”, tornando ad adattare un fumetto di Mark Millar, questa volta disegnato da Dave Gibbons (lo stesso di Watchman) e scrivendo la sceneggiatura insieme alla consueta Jane Goldman, cresciuta insieme a Vaughn e già al lavoro sul prossimo film di Tim Burton tratto dal romanzo di Ransom Riggs, “Peregrine’s Home for Peculiars”.

La miniserie di Millar, viene pubblicata lungo sei uscite dalla sub-label della Marvel, la Icon, marchio sotto il quale ha preso forma negli anni il “millarworld” e che in Italia è stata stampata dalla Panini. Rispetto ai precedenti lavori del fumettista scozzese, The Secret service mantiene il tono caustico e violento dei lavori migliori, aggiornando l’iconografia James Bond con esplosioni di violenza splatter e mantenendo intatto tutto il gusto per il gadget, i dispositivi e la fanta-tecnologia che ha contraddistinto la lunga saga cinematografica ispirata ai personaggi di Ian Fleming. A questo proposito, giovano alla furia scanzonata di Millar i disegni di Gibbons, che con la loro compostezza pulitissima, vicina ad un tratto di quasi quarant’anni fa, contribuiscono a creare un contrasto perturbante.

Vaughn ha un altro stile, e dello spirito di Millar traduce tutto il gusto per il giocattolino nerd che ci aveva fatto dubitare di Kick Ass e che al contrario ci era sembrato molto più ridotto in X-Men – L’inizio, per la capacità di utilizzare l’architettura del cinema mainstream in una direzione più creativa, umana e tragica.

Qualche cosa rimane anche in Kingsman, ma il risultato sembra quello del giochino post-moderno fuori tempo massimo, con alcune tiepide risemantizzazioni, condotte sulla carcassa di un immaginario che è già stato setacciato in lungo e in largo.

Oltre che a Bond, c’è un chiaro tentativo di riferirsi ai lavori meno conosciuti di Harry Saltzman, come per esempio la produzione per “The Ipcress File” di Sidney J. Furie, il primo adattamento di una serie di versioni cinematografiche dai romanzi di Len Deighton, dove l’agente segreto (Michael Caine) è una sorta di Bond scarnificato, molto meno seducente e più vicino all’immagine upper class del british gentleman, la stessa elaborata da Sydney Newman per la serie televisiva “The Avengers”, dove John Steed (Patrick Macnee) fa da contraltrare raggelante al sottile erotismo fetish di Emma Peel (Diana Rigg).

Nel film di Vaughn il John Steed Style è rafforzato ai massimi livelli, tra l’altro con continui riferimenti al decor delle serie televisive prodotte da Gerry Anderson tra i sessanta e i settanta, ovvero tutto quell’immaginario fantascientifico tra mondi possibili, idee psicotroniche e tecnologia destinata all’archiviazione vintage già dal suo concepimento.

Nella totale mancanza di personaggi femminili, ad eccezione dell’asessuata Roxy (Sophie Cookson) e della feroce Gazelle (Sofia Boutella) il cui erotismo ha ovviamente un ruolo punitivo da vera mistress castratrice, il sesso è completamente bandito dalla fratellanza omoerotica del Secret Service, tanto che l’unico sfogo-premio che Eggsy (Taron Egerton) si concederà è una sessione di sesso anale con la principessa svedese (Hanna Alstrom) rapita dal folle Valentine (Samuel L. Jackson).

Al di là delle suggestioni di grana grossa con le quali Vaughn si diverte a “disturbare” lo schema mainstream “generico”, oltre agli innesti di cui parlavamo, c’è un tentativo manifesto di contaminare lo spazio del set con un approccio combinatorio che in qualche modo vorrebbe tentare la stessa carta dell’ottimo “Guardiani della Galassia”; basta pensare al ruolo mnemonico della musica, da Money for Nothing alla disco dance, passando per la presenza insistente dei dispositivi di riproduzione (Ghetto Blaster, casse acustiche, dispositivi archeologici vs. una rappresentazione distopica di quelli touch, digitali e connettivi) senza che questa, come succede al contrario nel film di James Gunn, interferisca con la vita dei personaggi e instauri una relazione vitale con le loro e le nostre storie.

Vaughn è interessato, come qualsiasi nerd, a far funzionare la sua macchina da una prospettiva inesorabilmente di retroguardia; cosa pensare altrimenti della sequenza in cui Eggsy si batte frontalmente con Gazelle, mentre Valentine fa il Dj nella sua consolle di vetro e la sala degli ospiti si trasforma in un dancefloor settantiano?

Proprio per questo, tutto il continuo oscillare tra Britishness e free style, ghetto e buone maniere, action muscolare e algide geometrie, lotta fisica e amore per il merchandising, ci è sembrato un gioco facile e di maniera, senza particolari novità ne scossoni, se non l’illusione che si possa realizzare un cinema combinatorio senza sporcarsi le mani; tant’è, la sequenza per certi versi più liberatoria, quella della mattanza cristiana in una chiesa di fanatici anti abortisti, è un gioco divertente quanto freddo, una “gesture” punk per le masse e del tutto prevedibile.

Exit mobile version