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La mia classe di Daniele Gaglianone: la realtà fuori dal set

Nei giorni dell’acceso dibattito tra i sostenitori e i detrattori de La grande bellezza, esce nelle sale italiane, in silenzio, quasi di nascosto per non disturbare, La mia classe, il nuovo film di Daniele Gaglianone, un egregio lavoro incentrato sul problema dell’immigrazione e, soprattutto, sulle difficoltà dell’integrazione sociale.

Una scuola, un maestro interpretato da Valerio Mastandrea e la sua classe multietnica, formata da extracomunitari che recitano se stessi. Dentro questo microcosmo Gaglianone prova a mettere in scena un affresco spontaneo che vuole spiegare cosa vuol dire essere immigrati nel nostro paese, scegliendo un registro documentaristico e strettamente legato alla realtà. Ma il cinema, si sa, è arte della rappresentazione e quindi, fin dalle prime scene, il regista mostra la finzione cinematografica, non la elude. I tecnici entrano in scena, superano il limite che separa ciò che sta davanti alla macchina da presa da ciò che sta dietro lo schermo. I due piani si mischiano e si contaminano, ma il film nel film di Gaglianone non ha l’obiettivo di aprire una riflessione semiotica sulla potenza del mezzo cinematografico. Tutt’altro, è l’amara certificazione dell’impossibilità da parte del cinema di raccontare la realtà, di renderla esattamente uguale a quella “fuori” dal set.

La soluzione meta-cinematografica di Gaglianone non era affatto studiata, ma è stata conseguenza degli eventi reali che hanno accompagnato e condizionato le riprese. Succede infatti che un permesso di soggiorno scade e uno degli attori è costretto ad abbandonare il set. Il film, pensato in un modo, diventa un altro,  perché Gaglianone a questo punto blocca le riprese, interrompe di colpo il flusso narrativo, entra nel quadro e inizia a dialogare con gli attori. Eccola, la realtà, quella che tanto cinema ha inseguito senza mai trovare. Ecco l’intuizione che fa de La mia classe un film con il coraggio di sperimentare, senza perdere di vista il suo obiettivo primario, quello di gettare una luce su una delle questioni più spinose dell’Italia contemporanea.

La sfida di Gaglianone è doppia: da un lato cambia il rapporto con la fruizione spettatoriale, messa in crisi da una rappresentazione che svela la sua messinscena, il suo distacco dalla realtà. I personaggi de La mia classe sono prima di tutto persone, i loro problemi sono veri, autentici, non vengono filtrati attraverso una sceneggiatura costruita. Un caso sicuramente raro, perché il linguaggio meta-cinematografico è autoreferenziale per eccellenza, tende a riflettere su se stesso, sulle capacità di uno strumento che è in grado di condizionare e influenzare il pubblico. E se l’istanza della rappresentazione viene messa in discussione, inevitabilmente anche il ruolo del regista non può essere lo stesso. Mettendo da parte ogni ambizione enunciativa, Gaglianone si interroga sull’incapacità del cinema di raccontare problematiche vive, sulla necessità per chi vuole seguire la strada del cinema sociale di non staccarsi mai dal reale. Come dire, il regista non si deve limitare a mettere in scena delle storie, ma deve raccontare la realtà senza barriere.  Quando varca la scena, quando si mostra davanti alla macchina da presa, Gaglianone denuncia tutta la sua impotenza, la sua inadeguatezza per non essere riuscito a controllare gli eventi. La realtà, quella vera, entra di prepotenza nel suo film e lo sconvolge, stravolgendone le coordinate. Al regista non resta altro che adeguarsi, abbandonare la narrazione e seguire la realtà che, in questo caso, riesce a centrare i temi dominanti del film.

Alla fine, quando le luci dei proiettori vengono spente, si fa strada una certezza: film come La mia classe dimostrano come il cinema italiano, benché sottotraccia, sia ancora vivo. Perché dietro i soliti noti, alle spalle di autori ormai affermati come Sorrentino e Garrone non c’è il vuoto, non c’è il deserto; c’è invece chi ha ancora la forza di fare del vero cinema. E di farlo veramente bene.

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