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L’A.S.S.O. nella manica di Ari Sandel: la recensione

Quando si utilizza la sigla A.S.S.O. ci spiega Ari Sandel nel suo primo lungometraggio, ci si riferisce ad una persona bruttina, strategicamente di supporto ad una coppia di individui cool, che automaticamente possono giovarne nel confronto con l’amico più disgraziato per sentirsi migliori. Nella versione italiana, l’acronimo indica un’Amica, Sfigata, Strategicamente, Oscena mentre l’originale DUFF è forse più spietato nel delineare le caratteristiche fisiche del soggetto: “designated ugly fat friend“.

Tratto dal romanzo di Kody Keplinger e scritto dall’autrice a 17 anni, il film cerca di recuperare lo spirito della scrittrice del Kentucky, la cui missione è orientata all’elaborazione di una narrativa per adolescenti secondo un denominatore etico, che punti alla positività fisica e ad un approccio politicamente corretto nella descrizione della disabilità.

E a dispetto della superficie teen movie con tutto il campionario di trivialità assortite, anche il film di Sandel cerca di mantenere il tono dell’apologo edificante, ispirandosi in parte a titoli come Easy Girl e Mean Girls e infarcendolo di un’estetica social che non solo fa da cornice, letteralmente, per buona parte delle sequenze, ma che a un certo punto esonda nell’immagine, tra colori sparatissimi ed esplosioni floreali digitalizzate.

Mae Whitman è Bianca Piper, studentessa geniale e incurante del suo aspetto fisico, che si diverte a mortificare vestendosi con quello che capita. Le sue migliori amiche sono due strafighe sempre in tiro, legate alla ragazza da sincera amicizia, almeno fino a quando Wesley (Robbie Amell), il playboy della scuola e amico d’infanzia di Bianca, non spiega alla collega il suo ruolo nella società come A.S.S.O.
Afflitta e improvvisamente consapevole di come il mondo la vede, rompe con le amiche e decide di recuperare terreno facendosi “formare” da Wesley in cambio di qualche pera di fosforo affinché il ragazzone, atleta dalle grandi capacità, riesca a passare la prossima sessione d’esami.
Comincia così un piccolo racconto di formazione, dove Bianca cercherà di valorizzare la propria femminilità uscendo progressivamente dall’infamante marchio che le è stato affibbiato.

Ari Sandel e lo sceneggiatore Josh A. Cagan, entrambi provenienti da brevi esperienze televisive, infilano dentro al film tutto il campionario di banalità adolescenziali, dal cyberbullismo al rapporto difficile con gli adulti, fino alle famiglie disfunzionali sullo sfondo, causa oppure propellente per entrare ed uscire da ruoli predestinati.
Mae Whitman, aveva già interpretato un personaggio simile a quello di A.S.S.O. nella seconda stagione di Arrested Development; Ann Veal, complessata, religiosa e traumatizzata da una relazione adolescenziale con George Michael, era una figura sicuramente più scorretta, ingiuriosa e offensiva di Bianca Piper, proprio per la vicinanza pericolosa con gli aspetti più oscuri di una sessualità repressa.
Il film di Sandel è al contrario più moderato e tende a costruire un apologo pre-ordinatamente edificante, e che non risulta affatto credibile nella volontà di rispettare l’idea di diversità, di fatto del tutto neutralizzata dall’approccio in stile fairytale, pur cercando di riferirsi ad un cinema che puntava selvaggiamente sul lato più demente e amorale dell’adolescenza (American Pie) e al contrario alla formazione affettiva di un gruppo di ragazze come in Girls, la bella serie di Lena Dunham prodotta da Judd Apatow, ma senza mantenerne la stessa onestà realistica.

Tra la grafica delle visualizzazioni su youtube che spunta in forma pop-up a fianco dei telefonini, l’esplosione di gioia di Bianca immersa nei colori digitali di un videogame, le cornici dei social network a quadrettare le immagini e una lunga sequenza girata come un videoclip low-fi con la ragazza che prova un carosello di vestiti, mentre mima un amplesso sgangherato con un manichino, A.S.S.O. scorre prevedibilmente verso una prom-night in piena regola, cercando di recuperare maldestramente il senso di attesa e di meraviglia di Molly Ringwald in Pretty in Pink, ma senza avvicinarsi di un millimetro alla verità del cinema di John Hughes, tanto sono artefatti i presupposti.

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