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One More Time With Feeling di Andrew Dominik – Venezia 73 – Fuori Concorso: la recensione

I titoli di coda di “One More Time With Feeling” si chiudono con la struggente interpretazione di Arthur e Nick Cave di “Deep Water”, pezzo da loro composto per l’ultimo album di Marianne Faithfull “Give My Love To London”, ormai risalente al 2014. Il disco qui fa da trade union con “Skeleton Tree”, groviglio di parole e suoni lanciato nel cielo annebbiato.

I due lavori sono stretti in un abbraccio caloroso, in cerca di conforto e nel tentativo di fare pace con i propri demoni. In questo senso sembra esserci in entrambi “l’oggetto d’amore come luogo, di volta in volta da raggiungere o salutare, sempre distante mai perso”. A maggior ragione quando si parla di “Skeleton Tree” (l’album di Nick Cave And The Bad Seeds uscirà il 9 settembre), tocchiamo con mano ferite ancora fresche e non ancora rimarginate, lesioni a cui Nick Cave tenta di applicare del disinfettante con parole e saliva nel bellissimo “diario di bordo” scritto e diretto da Andrew Dominik.

Il film, infatti, prende il largo nel mare interiore di Cave e famiglia a dispetto della riservatezza da sempre mantenuta e confermata anche in “20,000 Days on Earth” diretto dai visual artists Iain Forsyth & Jane Pollard, con i quali Nick condivise processi artistici e trasformativi dello spirito creativo, lasciando che le incursioni nella vita privata (la moglie, i gemelli, i pasti condivisi con Warren Ellis) fossero più vicine ad una visita al museo della sua esistenza che a una vera e propria apertura confidenziale.

Il testo di “Deep Water” (“I’m walking through deep water, I have no time to lose, I’m walking through deep water, there’s nothing left to choose” e ancora: “This little heart of mine, got loaded up with chains, the world just swirls around me, the water makes its claim, I’m walking through deep water, trying to get to you”) è un piccolo scrigno che conteneva già tutta la forza premonitrice che spesso si ritrova anche nei testi di “Push The Sky Away” (pubblicato nel 2013) come “Into My Arms” o “I Let Love In”.

Là già si intravedeva l’ombra del cambiamento, o semplicemente un’ombra che non ha mai abbandonato del tutto la vita di Nick Cave, che qui si materializza con un corpo mostruoso, la paura che prende forma e lascia spiazzati.
Si ripete quasi come una cantilena dalla voce rotta che fa risuonare l’eco della “tragedia” e mostra tutt’ora gli strascichi del “trauma” legato irrimediabilmente alla morte di Arthur Cave, avvenuta l’anno scorso dopo una caduta di 60 piedi da una scogliera di Brighton.

Il set viene in questo modo a combaciare con la realtà e con il tempo, percepita dai Cave “after everything happened”, come elastico, racchiuso in un cerchio/un anello che si è formato dopo la morte di Arthur, tendente a riportare tutti coloro che l’hanno vissuta al centro, con una forza centrifuga e come memorandum di ciò che è successo.

Del resto lo si vede nel contrasto tra verità e immagine che Dominik porta sullo schermo: i problemi della messa a fuoco delle telecamere 3D durante l’intensa testimonianza di Warren Ellis, Nick Cave costretto a ripetere una scena per altre questioni tecniche e allo stesso tempo l’approccio del musicista australiano con differenti versioni della sua musica. In tutti questi casi quello che emerge è una continua lotta tra l’aderenza ad un momento irriducibile della propria vita e la sua trasfigurazione.
Un evento che dimostra la circolarità della storia personale di Nick Cave, riportando alla memoria la morte del padre in un incidente stradale quando Nick era poco più grande del figlio Arthur e producendo degli effetti sulla creatività incontrollabili e inaspettati (“…his death occurred at a point in my life when I was most confused. The loss created a vacuum, a space in which my words began to float and collect and find their place”).

Da quel momento probabilmente le parole sono divenute l’aspetto più importante nel suo processo creativo/compositivo (e non), fonte vitale di memoria senza le quali non è possibile vivere. La perdita in questo caso ha giocato un ruolo di forte spaesamento, di allontanamento dalla visione narrativa dell’arte in favore di una più evocativa, nella quale occorre tenere a bada le parole.

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