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Mommy di Xavier Dolan: la recensione

Dei film girati “col cuore” in genere conviene diffidare, pur dando per buona la sincerità della esternazione fatta dall’autore.
In genere conviene diffidare anche di chi dichiara di farsi interprete dei gusti musicali del pubblico. Non tutti amano gli stessi autori e generi.
Ma, superando per una volta questa naturale e provvidenziale diffidenza, cerchiamo di analizzare quello che non ci convince dell’acclamatissimo Mommy, un film che ha consacrato il già consacratissimo Xavier Dolan ad enfant prodige del cinema mondiale, con buona pace di Godard che ha dovuto dividere con lui il premio della giuria a Cannes.

Steve (Antoine Olivier Pilon) è un sedicenne dal quadro clinico molto problematico in quanto caratterizzato da ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) e ODD (Oppositional defiant disorder). Disattenzione, iperattività, disturbi nell’apprendimento e aggressività rendono la convivenza con soggetti simili molto difficile se non supportata da un serio intervento medico ed educativo.
La madre (Anne Dorval) vedova da tre anni, donna matura e ancora belloccia, non ha lavoro nè presìdi sociali che le diano una mano, l’America non ha idea di cosa sia uno straccio di Welfare.
Una vicina di casa (Suzanne Clément) ancora piuttosto giovane, graziosa e balbuziente, con marito e figlioletta appena visibili sullo sfondo, entra in contatto empatico con loro appena trasferiti nel quartiere.

Cosa attiri la vicina verso la strana coppia non è dato capire, nè sapremo mai perchè Kyla, questo è il suo nome, sia così mal messa da tre anni. Dice di essere in anno sabbatico, chiarendo infine di essere stata prof. di non si sa cosa a scuola, tanto che darà lezioni di recupero a Steve appena ritrova la parola. Il ragazzo infatti non è scolarizzato, ma c’è un sogno in giro (della madre, forse anche suo) che a tre quarti abbondanti del film crea una lunga sequenza onirica, con lui che riceve il baccalaureato in grande stile.

Cosa restituisca la parola a Kyla siamo lasciati liberi di deciderlo. Potrebbe essere l’amicizia con la madre, donna libera, un po’ fuori di testa, gran fumatrice e molto discontinua nell’amore per il figlio. Ma potrebbe, più a ragione, essere lo strano legame col ragazzo, un border line sessualmente molto frustrato ma iperattivo quanto può esserlo un sedicenne nelle sue condizioni in mezzo a due donne così.
In realtà nulla c’è da capire, ci sono incongruenze, nel film, che non sembrano appartenere a nuove frontiere del linguaggio cinematografico, sono semplicemente incongruenze.
Ma andiamo avanti.

Accade che i tre diventino inseparabili e attraversino un pezzo di vita insieme fumando, ridendo, scherzando, dandosi botte e bevendo alcolici vari, incuranti di difficoltà economiche e in un incosciente guazzabuglio esistenziale finchè la madre, non potendone più delle intemperanze del figlio (ma anche lei è abbastanza sballata di suo) per il suo bene, seppur straziata, l’affida a tre rudi infermieri che lo chiudono in casa di cura senza troppi riguardi (la scena della cattura è addirittura rivoltante, e se è vero che in Canada le cose vanno davvero così ci sarebbe da appellarsi al tribunale internazionale per i diritti del malato).

Che il film, forse al di là delle sue intenzioni, contenga un messaggio sociale forte va riconosciuto. La didascalia iniziale comunica infatti al pubblico che una legge, senza bisogno di estenuanti iter burocratici e ricorso a pareri psichiatrici, permette al genitore di sistemare il figlio disturbato e ingestibile in ospedale e lasciarlo lì sine die (il dettato legislativo è più asettico ma la sostanza è questa).
Purtroppo questa istanza forte sfuma, naufraga addirittura, nella melassa sparsa a piene mani, fra le strizzatine d’occhio allo spettatore e gli stereotipi più prevedibili.

La sensazione di un’ incombenza continua del regista sulla scena è devastante. Dolan è sempre lì, in narcisistica contemplazione della sua trovata, del suo taglio geniale, non riesce mai a dimenticare sè stesso a favore della storia e dei personaggi, la sua ricerca costante dell’effetto, la sottolineatura tesa a far capire ad ogni costo, il dettaglio ripreso quasi maniacalmente, la musica che entra a gamba tesa e ci distrae dal film, c’è di tutto ed è sfiancante.

Tirando le somme, resta da chiedersi cos’abbia voluto dire con questo Mommy che, se mai lo dimenticassimo, è la parola incisa sulla catenina d’oro sempre al collo della madre.
Siamo all’ennesima variazione sul tema madre/figlio, odio/amore, sfumature incestuose che affogano in un brodo di giuggiole sentimentali in salsa rockettara? O siamo al dramma della solitudine nella giungla straniante di un mondo povero e spietato che schiaccia i più deboli? O siamo ancora da qualche altra imprevedibile parte?

Dovunque siamo, ci restiamo per troppo tempo. Talentuoso certo Dolan lo è, lo schermo a grandezza 1:1 a comunicare isolamento e incomunicabilità è cosa a cui nessuno avrebbe mai pensato, possiamo giurarlo, e l’intervento di Steve che, a peripezie avanzate, lo allarga come una porta a scomparsa è semplicemente geniale. Solo così capiamo che si sta aprendo un orizzonte nuovo per madre, figlio e vicina di casa, fatto di libertà e sereno correre in bicicletta senza meta nè paura di auto che li asfaltino sul selciato.

Peccato che poi tutto torni come prima, anzi peggio, se il nostro Steve, una volta in ospedale, telefonerà alla madre con la voce mite di un agnellino e una bella camicia di forza che lo contiene (quando il close up si decide ad allargare il campo vediamo che qualcuno gli tiene la cornetta all’orecchio). A questo punto non resta che vergognarci, noi che ci lamentiamo delle imperfezioni della legge 180!

Per finire con la giusta pennellata crudele e strappacuore, perfino la remissiva vicina, dopo aver dato l’impressione di essere del tutto indifferente alle sorti di figlioletta e marito, decide di seguirli a Toronto per via del trasferimento per lavoro dell’uomo.
E così la madre resta sola. Sarà la volta buona che si trovi un lavoro e cambi parrucchiere!

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