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Control di Anton Corbijn: recensione

Grazie a Movies inspired Control, il film di Anton Corbijn dedicato a Ian Curtis, torna nelle sale e nelle arene estive. La recensione

La breve vicenda biografica di Ian Curtis è difficile da raccontare senza scivolare negli stereotipi. Il cantante dei Joy Division, con la sua vita e la sua musica, si è imposto agli occhi del pubblico come moderno modello dell’artista maledetto, il cui genio si nutre di quei demoni che di lui si nutrono. Quanto sarebbe facile cedere ai luoghi comuni per darne una rappresentazione romantica, in cui il malessere personale è tutto sommato quasi un dono, perché da esso nasce l’arte…

Nel 2007 Anton Corbijn riuscì a evitare questo rischio con il suo film d’esordio, Control, che segue Curtis dall’adolescenza alla morte. Come scrisse anche Roger Ebert dopo la premiere a Cannes, Control funziona sia come biopic musicale che come storia di una vita. Se ciò è vero, è anche perché dietro alla realizzazione del film ci sono persone che Curtis lo conoscevano bene: tra i produttori figurano infatti Tony Wilson e Deborah Curtis, rispettivamente produttore discografico dei Joy Division e moglie di Ian, e lo stesso Corbijn era amico dei membri della band.

Lo straordinario Sam Riley cattura gli sguardi e le movenze di Curtis e se ne fa vero e proprio doppelgänger, riuscendo a portare sullo schermo l’enorme fragilità del cantante, e rinuncia così a ogni tentazione agiografica.

Il suo Ian Curtis è l’unico fulcro del film di cui occupa la quasi totalità del minutaggio, si contano solo un paio di brevi scene in cui egli non appare, ma se la cinepresa di Corbijn è sempre su di lui, la sua figura sembra quasi voler sfuggire da questa presenza così indiscreta, ricurvandosi su di sé, perennemente attanagliato da un disagio da cui si libera solo quando il suo corpo si muove sulla musica, in quegli strani, sgraziati balletti resi celebri dai concerti dei Joy Division.

Molti film sulla storia delle band, soprattutto in tempi recenti, tendono a ridursi a lunghe parate musicali con le quali compiacere i fan, trama e personaggi risultano accessori a questi karaoke per immagini.

Anche in Control la musica ha, chiaramente, un ruolo centrale, ma il rapporto con la narrazione è ribaltato: le canzoni non sono l’unica cosa che conta ma sono funzionali alla storia che viene raccontata; servono cioè a sviluppare il ritratto del protagonista, che nelle note nei testi e nel ballo esprime una parte importante della propria essenza.

Sono passati esattamente 40 anni dal suicidio di Ian Curtis. È l’occasione per (ri)scoprire Control, che, nonostante l’ottima accoglienza all’epoca della sua uscita, è poi finito quasi dimenticato.

E non lo merita. Perché anche se non è certo un film epocale, rimane un biopic scevro da cliché, capace, soprattutto, di fare un ritratto non idealizzato della depressione.

Corbijn la ritrae per ciò che è, una malattia e il Ian Curtis che porta in scena è un uomo malato. Forse il suo talento viveva anche di questa sua condizione, ma il fardello di una simile esistenza non è taciuta e il bianco e nero così contrastato della pellicola cattura tutte le contraddizioni raccontate. Contraddizioni che hanno fatto grandi Ian Curtis e i Joy Division.

E, in minor misura, anche Control.

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