Fhloston Paradigm – The Phoenix: la recensione

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King Britt, dopo aver utilizzato il moniker di Afrofuturist per progetti di matrice più techno, torna con un progetto che per certi versi è la prosecuzione di quella tendenza “science-fiction” che ha caratterizzato i suoi esperimenti sul ritmo. Imboccando una via più orientata alle architetture di un paesaggio sonoro, concepisce la struttura dei brani come delle continue aperture verso l’esterno che sembrano ispirate in parte ai groove Carpenteriani, e per altre ragioni al viaggio di una “spaceship” nel cinema di fantascienza della seconda metà degli ottanta. Fanno parte della prima serie brani come Race to the moon, Letters of Past e sopratutto il groove funk di Chasing Rainbows, quasi un “assault on precint 13” più fratto e particellare rivisto attraverso la griglia ripetitiva dei Daft Punk, anche se il crescendo che espande lo sfondo dei synth sopra un groove inesorabile non può non ricordare il funk futuribile e sintetico del regista di Carthage. Al di là di tutto, rimane una tendenza fortemente cinematica su tutto il lavoro di Britt anche quando vengono innestati i contributi vocali di Pia Ercole, Rachel Claudio, Natasha Kmeto. La seconda, nella notevole Never Defeated, recupera quell’oscurità metà umana e in parte artificiale del Tricky di Pre Millenium Tense, trip-hop fuori dagli standard e lanciato verso una soulfulness oscura che a tratti ricorda le migliori cose della Asphodel Records, tra tutti, i WE di As is. In forma più calda, la Kmeto contribuisce a costruire l’atmosfera R&B astrale e cibernetica di Light On Edge, tra i beat techno in versione acquatica e una decostruzione progressiva della voce attraverso la corruzione dei frammenti digitali. Tra la deriva dello spazio profondo (never forget), e la pressurizzazione di The Phoenix, c’è spazio per una meditazione terrifica tra calore e morte, una tensione continua che rielabora tutte le influenze etno di Britt nel futuro anteriore di una fantascienza immaginifica, a suo modo epica e sopratutto vitale.