La Norvegia sarà la mia tomba: dei Darkthrone contro il mondo

7561

La trilogia composta da F.O.A.D. (2007), Dark Thrones and Black Flags (2008) e Circle the Wagons (2010) – caratterizzata da un artwork di copertina medieval-fumettistico che sembra preso di peso dai libri-game di Lupo Solitario – segna un ulteriore imbastardimento del suono. Le influenze derivanti dal metal classico e dalle sue numerose propaggini (New Wave of British Heavy Metal, Speed Metal, Epic Metal, Power Metal), di volta in volta più marcate, accrescono nuovamente il peso specifico della componente heavy nel blackened punk del gruppo. Se in tale contesto Nocturno Culto rimane il più affezionato alla brutalità di stampo thrash, Fenriz è il pioniere che batte per primo sentieri inesplorati: trascinato da una passione sincera e viscerale per la old school (non a caso firmerà un brano dal titolo I Am the Grave of the 80s), il nostro sottrae sempre più spesso il microfono ai grugniti del collega, introducendo l’inedito elemento delle clean vocals e abbattendo di conseguenza un tabù che caratterizza da sempre il genere estremo.

È in questa fase che la natura stessa del gruppo comincia a mutare visibilmente. Aggettivi come grim (tetro) e frostbitten (glaciale) – utilizzati ad ogni piè sospinto dai blacksters Norvegesi per descrivere la propria musica – non fanno più parte del vocabolario di Fenriz e Culto. Le interviste, che i nostri rilasciano ormai senza difficoltà, rivelano che anche la misantropia è un lontano ricordo, e che i Darkthrone sono in realtà personaggi molto più alla mano di quanto la loro aura leggendaria lascerebbe immaginare. Sempre meno interessati a sostenere il movimento black – e, anzi, inclini a sputtanarlo ogniqualvolta se ne presenta l’occasione – i due abbandonano gli atteggiamenti seriosi dei colleghi, limitandosi a rockeggiare con autoironia. Le tendenze didascaliche che da sempre contraddistinguono Fenriz (Transilvanian Hunger e Panzerfaust non erano forse atti d’amore verso i suoi artisti preferiti?) tracimano del tutto, ormai prive di argini: ad ogni nuova uscita il batterista redige interminabili note di copertina, con l’unico intento di trasmettere ai fan la gloria del tanto amato metal old school. Quello stesso metal che il nostro celebra attraverso continui riferimenti musicali e lirici, schierandolo a mo’ di scudo contro le derive modaiole della scena (“You have nothing in common with me / you think old school is 1993 / ha! I’ve been a thrasher since ’84 / almost nothing sounds true anymore / I’ve made my own code / sold my soul to Manilla Road / modern metal, I don’t give a fuck / uh! I was raised on rock”).

La genesi di The Underground Resistance si colloca in questo scenario, e riflette appieno l’insoddisfazione del gruppo nei confronti di ciò che lo circonda. Magistrale esempio di rinnovamento attraverso la tradizione, l’album ha radici ben piantate nei gloriosi anni ’80 (la golden age del genere), e potrebbe tranquillamente fungere da bignami per un neofita desideroso di comprendere appieno il significato del termine Heavy Metal. Rispetto a quanto prodotto nel corso dell’ultimo lustro, i nostri dimostrano di aver fatto notevoli progressi. Se in anni recenti l’urgenza di esibire il proprio background working class aveva determinato il ricorso a soluzioni musicali semplicistiche o a liriche poco ispirate, The Underground Resistance si rivela al contrario un monolite inattaccabile. Per quanto notevolmente diversi fra loro, i brani sono nel complesso sostenuti e piacevolmente articolati, felice risultato di una carriera volta a padroneggiare l’arte del riff di chitarra. Come sempre Nocturno Culto sigla le tracce più legate all’estremo, ed è sua la brutale apripista Dead Early, una cavalcata NWOBHM che assume ben presto cadenze hardcore. Il testo analizza la caducità dell’esistenza e l’ineluttabilità della morte, di fronte alla quale il nostro non si scoraggia e tantomeno rinnega il “cammino della mano sinistra”, intrapreso da anni senza rimorso alcuno (“I got the chance on a silver plate / to do things right, to do things straight / the worlds are clear to me / I’m not going to last”). Ancora meglio riesce a fare Lesser Man (scelta lo scorso Giugno come video promo dell’album), macigno thrash che al minuto 01:45 esplode in un riff puramente Celtic Frost e si trasforma nel paradiso degli headbangers. L’apocalittica Come Warfare, the Entire Doom rappresenta l’apice compositivo del frontman, riuscendo a spiazzare l’ascoltatore con continui cambi di tempo: parte doom, assume un’attitudine bastarda à la Venom, passa per un intermezzo che sembra uscito direttamente da Transilvanian Hunger, per poi tornare ai granitici riff in Mi tipici del thrash metal. Benchè eccellenti, le tracce di Nocturno Culto fungono da mero antipasto rispetto al materiale di Fenriz, qui ai suoi massimi livelli di sempre. Valkyrie sembra quasi trasporre in musica l’immagine di copertina, recuperando il retaggio nordico con un’ode alle dee guerriere figlie di Odino dai toni romantici (“Unflinching wit and sense of just / a brilliant force for land and lover / the hand that reaches out / a glance that clears all doubt / flowing hair in the fall / that laugh attracts them all”). In accordo all’argomento trattato la musica vive di atmosfere profondamente epiche: coniuga le melodie tipiche degli Iron Maiden con la velocità dello speed metal, avvicinandosi molto a quanto prodotto negli anni ’80 dai tedeschi Hellowen. È necessario puntualizzare che chi scrive ha sempre prediletto i sottogeneri più ruvidi del filone metal, rifuggendo il power/epic come roba da cicisbei. Ma – diamine! – quest’uomo deve avere il tocco di Mida, perchè il brano è senza dubbio uno degli highlight dell’album. La cavalcata The Ones You Left Behind rimanda in misura maggiore allo stile buzzurro di F.O.A.D./Dark Thrones and Black Flags/Circle the Wagons, incrociando cori da Vichinghi ubriachi con alcune eccellenti armonizzazioni di chitarra. Ma l’opus magnum di Fenriz – e forse l’apice dell’intera produzione Darkthrone – è rappresentato dall’accorato inno al lato oscuro Leave No Cross Unturned. Nel corso di quasi 14 minuti di incessante riff-o-rama, il batterista ha modo di celebrare le sue passioni passate e presenti. Si parte con muri di chitarra à la Exodus – periodo Bonded by Blood – su cui il nostro innesta un cantato operistico che omaggia esplicitamente i vezzi di King Diamond, invitando l’ascoltatore a rovesciare le croci a ad abbracciare le tenebre (So it is over the last day of yearning / laugh at your dreams while your bridges are burning / Commander of dread, the nightmare nears / obstructer of wealth, cauldron of fears / Leave! No! Cross! Leave No Cross Unturned!”). Dopo un intermezzo inquietante, in cui sembra di udire i lamenti dei dannati salire fin dall’inferno, il ritmo si assesta su territori Celtic Frost, stimolando un furioso scuotere di chiome. È qui che la voce di Fenriz si sporca, pronunciando il nome del collega e servendogli l’assist per un extended guitar solo. Un gesto che, da solo, riassume trent’anni di turpitudini Heavy Metal. Uno sputo in faccia a tutto ciò che può essere considerato cool. Un’istantanea che ci rimanda l’immagine di Fenriz e Nocturno Culto all’apice della loro volontà di potenza. Impavidi, tamarri e fieri. Come Odino comanda.