Moksha: la palude sonora di Raz Ohara

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Moksha è una palude. Suoni striscianti, beat disseminati, stridori pungenti e voci accennate e sospese; una miscellanea di richiami vari e scombinati, amalgati in un complesso tanto disorientante quanto affascinante. Una palude, sì: impregnata di vita, organica, traboccante. Ma con un’aria a tratti viziata e secca, un’artificiosa atmosfera tagliente. Questa è la sostanziale, strutturale duplicità che affiora, spavalda, nell’ultimo lavoro di Raz Ohara: un’opera di per sé bipolare, scissa fra due nature opposte ma speculari.

Non a caso il musicista di origine danese, ma trapiantato a Berlino, serba in sé e nella propria personalità artistica questa doppia essenza: alle volte cantautore in chiave acustica, autore di sonorità delicate e limpide (si ascolti The Last Legend, del 2001: chitarre pizzicate, voce sussurrata e atmosfere dondolanti); altre volte, producer e fomentatore della scena elettronica tedesca, con tanto di collaborazioni prestigiose (Apparat e Alexander Kowalski, per dirne un paio) e numerose produzioni all’attivo, fra cui quelle con Oliver Doerell sotto il moniker di Raz Ohara and The Odd Orchestra (il disco d’esordio omonimo, del 2008, e II, del 2009).
Nature diverse, dicevamo, che però si sono sovente rincorse, intrecciate e suggestionate a vicenda, in un dialogo in continuo divenire. E questa reciproca influenza si palesa, per l’appunto, anche in quest’ultimo lavoro: nervosi flussi elettronici si alternano ad oscillanti intrusioni acustiche; chi ascolta viene investito da un’ondata di suoni vibranti e avvolgenti, intervallati da sprazzi di squilibri meccanici. L’opera, spezzata e disorganica, subisce l’invasione di brandelli sonori scollegati fra loro: ticchettii metallici, echi, riverberi, note strimpellate a mezz’aria, rantoli sintetici. Il risultato è una sorta di orchestra schizofrenica, che appare allo stesso tempo molteplice e contraddittoria, nell’incostanza di frammenti sconnessi e atmosfere perturbanti.

L’eterogeneità è palpabile anche nei singoli brani, che subiscono l’influenza di numerosi generi, contaminandosi reciprocamente: muovendosi su un sostanziale tappeto di suoni elettronici, pungente e spezzettato, che spazia da un minimal essenziale e scarno al glitch più aspro, il suono si dilata in remote e cristalline reminescenze ambient, ampi richiami R&B e soul e languidi fremiti downtempo, fino ad inaspettati richiami post-rock. Un calderone da cui affiorano le suggestioni più disparate: da Alva Noto a Jon Hopkins, da James Blake a Shigeto, passando per Mùm e Fink.
Moksha è un disco che sconcerta e lascia in bilico, galleggiando fra frequenze sempre fortemente contrastanti: in Sungaze, a suoni gommosi e molleggianti si alternano stridori ancestrali; Beija Flor è un componimento quasi mistico, come un lamento distante, in cui segnali lontani affiorano da un’immaginaria foresta sonora; mirabile la suadente True Love Will Find You In The End, cover dell’omonimo brano di Daniel Johnston, qui trasfigurata in un’oscillante ballata slowjam.

Nella sua accurata ed insistente ricerca di perfezione tecnica e varietà concettuale, ad un primo impatto quest’ultima fatica di Ohara può apparire fredda e ostica, un esercizio di stile dettato da un virtuosismo esemplare ma automatico. Tuttavia ad un ascolto più attento vengono a galla, audaci, anche il tocco raffinato, l’intrinseco intimismo e la spiccata sensibilità che irrorano il tutto, rendendolo florido e prezioso. Nonostante la carenza di pathos, Moksha impressiona col suo perfetto equilibrio fra silenzio e suono, mai lasciato al caso, sempre ponderato e coerente. Straniante, ma essenziale.