Il videoclip di “Nivuru Munnu”, secondo singolo estratto dal primo album solista di Lillo Morreale, rappresenta un punto di convergenza tra la musica elettronica contemporanea e la tradizione musicale popolare mediterranea. Realizzato dalla regista Roberta Palmieri, non solo interpreta visivamente la composizione musicale, ma ne amplifica le suggestioni, creando un’opera che dialoga tra suono e immagine, con una tensione tale da delocalizzare la narrazione in quel crocevia tra passato e presente, dove realtà ed astrazione rappresentano di volta in volta il piano di realtà privilegiato.
Lillo Morreale: tra elettronica e tradizione
Lillo Morreale nasce ad Agrigento e si forma musicalmente studiando chitarra, violino e canto. Approfondisce successivamente la sua formazione in Tecnica del Suono presso gli AreaStudio di Agrigento e in Musica per Film al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. La sua carriera inizia nel 2008 con il progetto rock sperimentale Antarte, dove ricopre i ruoli di chitarrista, cantante e violinista. Il gruppo, attivo per circa dieci anni, fonde elementi di rock sperimentale, dream pop e jazz, con influenze ambient. Parallelamente, Morreale sviluppa una carriera come compositore e sound designer per il cinema, collaborando con diversi registi e ottenendo riconoscimenti in festival internazionali. La sua musica si caratterizza per l’uso di sonorità elettroniche contemporanee, spesso integrate con strumenti acustici tradizionali, creando un ponte tra il suono digitale e quello analogico.
Nel suo primo album solista, All Of My Life I’ve Been Dreaming About The Sea, Morreale esplora ulteriormente questa fusione, utilizzando strumenti come il saz, la baglama e il lotar, provenienti dall’area mediterranea, per arricchire le sue composizioni elettroniche. Il brano “Nivuru Munnu” è un esempio emblematico di questa sintesi, dove la ripetizione ossessiva di una frase in dialetto agrigentino si fonde con un paesaggio sonoro dominato da sintetizzatori e drum machine, creando un’atmosfera densa e ipnotica.
Roberta Palmieri: una regista in ascesa
Roberta Palmieri, nata a Chieti nel 1994, è una regista e sceneggiatrice che ha iniziato la sua carriera nel campo del cinema indipendente. Dopo aver studiato al DAMS di Bologna, ha fondato nel 2020 l’associazione Theater 7/2 Productions, che nel 2024 è diventata Sette e Mezzo Studio, una casa di produzione focalizzata su progetti cinematografici e audiovisivi.
Il suo cortometraggio Capitan Didier, ha vinto la seconda edizione del concorso “Una storia per Emergency”, promosso da Emergency e Rai Cinema, con l’obiettivo di sensibilizzare sui temi della pace, dell’accoglienza e della solidarietà.
Successivamente, ha partecipato al programma di formazione “Becoming Maestre”, promosso da Netflix e dai David di Donatello, da cui è nato il cortometraggio Goodbye Pig.
Nel 2024, ha diretto Dieci Secondi, un cortometraggio presentato in anteprima mondiale in concorso al 42° Torino Film Festival. Il film esplora il tema della perdita attraverso una narrazione intima e personale, utilizzando una cinematografia minimalista e una scrittura sensibile.
Il videoclip di “Nivuru Munnu”: un’analisi visiva e sonora
Il videoclip di “Nivuru Munnu” si distingue per la sua capacità di tradurre in immagini la complessità sonora del brano di Morreale. Palmieri utilizza una combinazione di tecniche visive per creare un’atmosfera evocativa e simbolica. Caratterizzato da un uso predominante del bianco e nero, con contrasti marcati che enfatizzano le texture e le forme, si colloca in una dimensione atemporale, sospesa tra sogno e realtà dove alla qualità onirica aggiunge la ricombinazione mnestica dell’inconscio. Le immagini di paesaggi naturali, come le coste di Punta Bianca e Zingarello ad Agrigento, sono riprese con lentezza e attenzione ai dettagli, creando una sensazione di immersione totale nell’ambiente.
Palmieri adotta una serie di tecniche cinematografiche per amplificare le suggestioni sonore del brano. L’uso della stop motion e del frame rate ridotto conferisce al video un ritmo discontinuo, quasi ipnotico, che rispecchia la ripetizione ossessiva della frase in dialetto agrigentino. Inoltre, le riprese in slow motion e le inquadrature ravvicinate creano un senso di intimità e di introspezione, invitando lo spettatore a concentrarsi sui dettagli e sulle sfumature dell’immagine.
Il video esplora temi come l’identità culturale, la memoria e la connessione con la terra. La presenza del dialetto agrigentino nella traccia vocale e la scelta di location autentiche e non turistiche radicano il progetto in un contesto specifico, ma allo stesso tempo universale. Le immagini di natura selvaggia e incontaminata suggeriscono una riflessione sulla condizione umana e sul rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda.
La collaborazione tra Lillo Morreale e Roberta Palmieri evidenzia come musica e immagine possano interagire in modo profondo e significativo anche nella cornice di un mercato saturo come quello del videoclip diffuso in rete. La composizione musicale di Morreale, con la sua stratificazione di suoni elettronici e acustici, crea un paesaggio sonoro complesso e ricco di sfumature. Il videoclip di Palmieri traduce questa complessità in immagini, utilizzando una varietà di tecniche visive per amplificare le emozioni evocate dalla musica.
Questa sinergia tra suono e immagine non solo arricchisce l’esperienza sensoriale dello spettatore, ma offre anche una nuova interpretazione del brano, invitando a una riflessione più profonda sui temi trattati. La capacità di entrambi gli artisti di utilizzare i rispettivi linguaggi per esplorare l’identità culturale e la memoria collettiva contribuisce a creare un’opera che è tanto musicale quanto visiva, tanto locale quanto universale.
Il termine “elettronica mediterranea” in questo caso può riferirsi a tutte quelle ibridazioni tra tecnologia e sonorità tradizionali, dove il primo elemento serve come dispositivo di rivelazione per quei paesaggi emotivi ed atmosferici che sono incorporati nella storia di un popolo e della sua terra.
Da parte sua, Roberta Palmieri si inserisce nel contesto del cinema sperimentale e della videoarte, dove l’immagine non è solo una rappresentazione della realtà, ma uno strumento per esplorare concetti astratti e emozioni. Registi come Chris Marker e David Lynch hanno utilizzato tecniche simili per creare opere che sfidano le convenzioni narrative e visive. Palmieri, attraverso l’uso delle tecniche stop motion, della cut-out animation e del frame rate ridotto, crea un linguaggio visivo che invita lo spettatore a una visione più contemplativa e interpretativa, rispetto alla relazione empirica a cui il cinema del reale ci ha abituati.
Il paesaggio, sia sonoro che visivo, gioca un ruolo cruciale nell’opera di Morreale e Palmieri. La scelta di location autentiche e non turistiche, come le coste di Agrigento, e l’uso del dialetto agrigentino, contribuiscono a radicare il progetto in una specifica identità culturale. Questo approccio richiama le teorie del paesaggio di Yi-Fu Tuan, il geografo sino americano che ha considerato il paesaggio come esperienza emotiva e culturale, e non solo come un dato geografico.
Il lavoro di Roberta Palmieri, in Nivuru Munnu, si inscrive in una lunga genealogia visiva che ha visto artisti come Christian Marclay e numerosi giovani registi contemporanei usare tecniche di collage, stop motion e manipolazione del tempo per esplorare non tanto la realtà oggettiva, quanto l’esperienza soggettiva del vedere e del ricordare. In Marclay, ad esempio, l’assemblaggio frammentario di immagini e suoni crea un campo visivo e sonoro che riflette il tempo percepito, il ricordo, la memoria collettiva e individuale; ogni taglio, ogni giunzione, genera un piccolo shock percettivo che costringe lo spettatore a una partecipazione attiva, a una lettura del flusso temporale come esperienza soggettiva.
Analogamente, Palmieri utilizza la stop motion e la variazione di frame rate come strumenti per deformare e dilatare il tempo, trasformando il paesaggio e le figure in presenze quasi eteree. Gli scatti rallentati e le immagini sovrapposte non sono semplici effetti estetici, ma dispositivi narrativi che mettono in tensione il presente con il passato, trasformando la memoria del luogo e della lingua – il dialetto agrigentino, le coste di Agrigento – in un sogno che si muove tra concreto e simbolico. L’effetto è quello di un ricordo che si materializza visivamente, con la stessa ossessività ripetitiva della frase cantata da Morreale, creando una corrispondenza tra percezione uditiva e visiva.
Il ricorso al collage visivo, alla stratificazione delle immagini e al tempo rallentato consente inoltre di evocare l’inconscio visivo dello spettatore. Non si tratta solo di mostrare luoghi o raccontare storie, ma di stimolare associazioni, di lasciare emergere memorie personali e collettive. In questo senso, Palmieri riprende una linea di pensiero del cinema sperimentale e della videoarte internazionale, dove l’elemento frammentario diventa veicolo per una percezione più intensa e soggettiva della realtà: ciò che vediamo non è solo ciò che esiste, ma ciò che ricordiamo, sentiamo, e immaginiamo.
Infine, questo approccio dialoga strettamente con la musica di Morreale: come il collage visivo trasforma il tempo e lo spazio, così la fusione di elettronica, riverberi, percussioni e strumenti tradizionali dilata il tempo sonoro, creando un paesaggio acustico sospeso, dove ogni frammento timbrico è come un’istantanea visiva che si staglia nella coscienza dello spettatore/ascoltatore. La corrispondenza tra le due arti, il suono e l’immagine, è quindi radicata in una comune volontà di esplorare il ricordo, l’inconscio e la temporalità in maniera non lineare, ipnotica e profondamente sensoriale.
Nivuru Munnu, una sinossi critica
Ad aprire il video è un microcosmo di vita brulicante, quella invisibile degli insetti organizzata attraverso le tecniche stop motion che evidenziano le fratture di una terra arida. Si instaura subito una tensione tra minuzia naturalistica e deformazione temporale. Questa scelta tecnica richiama la tradizione della microanimazione naturalistica e il lavoro di artisti come Jan Švankmajer, il primo David Lynch, i fratelli Quay, in cui la manipolazione del tempo e la frammentazione visiva trasformano il quotidiano in un’esperienza poetica e ipnotica. La successiva apparizione di una figura umana, nuda in mezzo all’elemento naturale e con un orchidea in bocca, sposta la narrazione dal microcosmo alla dimensione corporea, facendo convergere quest’ultima con l’ambiente ostile in un unico campo di tensione visiva.
La masticazione dell’orchidea, con lo scorrere del sangue che irrora la terra arida, crea una simbologia potente: il corpo diventa agente trasformativo della natura, e il fiore, tradizionalmente simbolo di bellezza e fragilità, è trattato come carne viva, generando una dimensione tanto organica quanto disturbante. La riflessione è quella legata alla BioArte, dove il corpo umano e l’ambiente non sono entità separate ma elementi di un ecosistema connesso.
La trasformazione della materia naturale dove l’impasto di terra e sangue fa da contrappunto all’orchidea di carta che si apre e si chiude nel cielo, richiama anche le strategie del collage visivo nella videoarte contemporanea, in cui materiali eterogenei, organici, artificiali e bidimensionali, vengono sovrapposti per costruire simboli onirici.
L’uso della cut-out animation, che trasforma anche le formiche in piccole sagome di carta, espande questa poetica del ricordo e dell’inconscio visivo: ogni movimento meccanico o frammentario evoca un mondo interiore che trascende la mera osservazione naturalistica, portando lo spettatore a percepire il tempo come dilatato e discontinuo. La fauna locale, come api, testuggini e scarafaggi, aggiunge un ulteriore strato di ecologia visiva, in cui il corpo umano, il microcosmo animale e gli elementi vegetali si intrecciano in un paesaggio simbolico di temporalità rituale.
Il passaggio all’elemento acquatico, con l’uomo immerso e ripreso dall’interno di una vera a propria sacca amniotica, introduce il tema della rinascita e della trasformazione spirituale.
Il montaggio e la scelta di collocare il punto di vista a pelo d’acqua, ricordano le forme di un cinema aptico e immersivo, caro ad autori come Terrence Malick o a quei videoartisti contemporanei che cercano una fusione visuale tra corpo e ambiente. L’emersione dell’uomo, ora in posizione di riposo circondato da fiori galleggianti, trasforma la scena in un nuovo ecosistema visivo; qui il corpo e la natura convergono in un ordine simbolico che evoca sia la rinascita che la memoria di un paesaggio ancestrale.
Il videoclip utilizza stop motion, cut-out, collage e manipolazioni temporali non come semplice esercizio estetico, ma come strumenti narrativi e simbolici. L’osservatore attraversa un percorso che va dall’aridità e brutalità del terreno iniziale alla sospensione acquatica finale, vivendo in parallelo un’esperienza corporea, ecologica e onirica. La sequenza visiva si pone così come un esperimento di percezione sinestetica, quasi alla Christian Marclay, dove suono e immagine coesistono in un continuum emotivo, esplorando l’inconscio visivo, il ricordo e il tempo rallentato.
L’album di Livio Morreale uscirà il 26 settembre per Locomotiv Records






