Ottodix – Chimera: la recensione

3694

Non è la Chimera mitologica quella che ispira il nuovo lavoro di Alessandro Zannier, ma la sua rilettura simbolista, alla luce dei sonetti di Gérard de Nerval, della pittura di Gustave Moreau e di tutta la cultura Fin de siècle che corre verso il novecento e la fine del sogno, trasmutato nel mostro bellico di metallo e fuoco, primo segnale del crepuscolo dell’occidente.

Ecco perchè dalle illustrazioni del booklet fino alle scelte musicali, Ottodix sembra prediligere un gusto retro-futurista di ascendenza più politica che nostalgica, dove la prospettiva è di tipo metastorico.

Tra Tesla, Giordano Bruno, Magritte, l’industria sferragliante del ‘900, le ideologie del ventesimo secolo e King Kong, la chimera catodica, il presente emerge come conseguenza di una marcescenza che ha condotto ad un vuoto di senso collettivo.

La musica non poteva quindi che seguire un percorso sincretico, tra pop, magniloquenza orchestrale, synth wave comunicativa e stratificata, come per i Matia Bazar trasformati da Mauro Sabbione, quelli abbacinati dall’opera, Marinetti e la Mitteleuropa post-punk.

Non è un caso che il progetto di Chimera si espanda alla dimensione performativa e legata alle arti visive; se il Nam June Paik citato dai Matia Bazar rimaneva confinato nell’arena televisiva dei primi videoclip, citazione sottile destinata a pochi, per Ottodix l’occasione di creare un’esperienza espansa si presenta attraverso la serie di installazioni artistiche che sul piano visuale fanno da eco al concept dell’album; dalla Biennale Cina-Italia di Pechino fino alla produzione di un cortometraggio che vedrà la luce a breve.

In una connessione transmediale difficilmente fruibile da tutti, ci rimane in mano un album di quindici tracce che sembrano attraversare tutta l’esperienza di Zannier con artisti come Garbo, Luca Urbani, Madaski, quella di un pop elettronico che trova il suo centro elettivo nel dancefloor wave degli anni ’80, contaminato con tutte le schegge di futuro anteriore di cui si parlava.