Blur – The Magic Whip: la recensione

3215

Robert Mapplethorpe, il controverso fotografo statunitense che offrì la propria lente – fra gli altri – a Warhol e Patti Smith-, disse che quello che andava cercando nella fotografia fosse l’imprevisto, fosse cioè tutto quello che non aveva mai visto prima. Chissà se Damon Albarn e soci avranno pensato lo stesso quando di fronte alla cancellazione del festival del Tokyo Rocks Music si sono trovati gomito a gomito in uno studio della capitale nipponica per registrare l’embrione di quello che oggi esce al pubblico sotto il nome di The Magic Whip. E chissà cosa direbbero o diranno i più restii ad apprendere che la mente dietro la resa dell’album non è il prevedibile Damon quanto il lunatico, uggioso e introverso Graham.

L’imprevisto, o il vecchio adagio della legge di Murphy secondo cui tutto quello che può accadere accadrà, sembra guidare le sorti iniziali dell’album. Ed è esattamente così per le dodici tracce di questo The Magic Whip. Parlare dell’ultimo album dei Blur è un po’ come “ballare sulle architetture” (grazie Frank, sempre e ovunque), ma è anche un inevitabile scoglio per chiunque voglia intessere un po’ di sana conversazione post lavorativa. Altrimenti, di cos’altro potreste discorrere nelle vostre sbiadite serate cittadine. Attualità, forse? Tornando a noi, le introduzioni che potrebbero anticipare l’album sarebbero molteplici quanto doverose. L’evolversi del ben conosciuto odio (e amore?) fra Blur e Oasis, tanto per cominciare, che porterebbe a chiedersi dove siano oggi gli uni e gli altri, l’estenuante annuncio dell’ultimo tour da anni immemori a questa parte, per proseguire.

E poi le parentesi, non troppo indifferenti alla resa di questo The Magic Whip da parte di Albarn e Coxon. E ancora la droga, sempre lei e sempre pronta ad arrabbattare la scena, sia questa da spararsi in vena o direttamente in un calice da 50 ml. Una sciarada di pensieri che va a riempire l’enorme vuoto degli ultimi sei anni di silenzi e rimandi sulla lunga distanza, anni in cui i Blur hanno fatto finta di non conoscersi o di non avere più nulla da dire eccetto la ristampa dei migliori best degli anni addietro (Midlife: A Beginner’s Guide To Blur) o la cura di un documentario ad hoc in retrospettiva nostalgica (No Distance Left To Run). Tanti tasselli che conducono dritti al tubolare al neon che capeggia sulla copertina dell’album, un gelato che si staglia su una scritta in mandarino che riporta il nome del gruppo.

Si diceva, dodici pezzi quasi tutti composti all’ombra di certo piacevole lassismo, una rilassatezza inusuale rispetto all’ultimo lavoro documentato, ParkLive.  The Magic Whip è un album che sintetizza come mai più accadrà gli anni di reciproci silenzi. C’è il lirismo classico alla Everyday Robots (Lonesome Street), la trance-reggae alla Gorillaz (Ghost Ship), l’esplorazione dei suoni diametralmente opposti alla terra di albione (Pyongyang) e la chitarra invasiva e irrimediabilmente tardo-garage di Graham Coxon (Go Out).  Alla fine la bilancia risulterà ancora una volta sbilanciata sul piatto di Damon e chi in questi anni l’ha seguito nel turbinio delle sue evoluzioni non potrà non riconoscerne l’assoluto estro, ma The Magic Whip sancisce l’impossibilità, totale o quasi, di archiviare i Blur sullo scaffale del britpop degli anni d’oro negando ai quattro dell’Essex la chance e la possibilità di guadagnarsi un nuovo cono sula ribalta.