venerdì, Novembre 14, 2025

Goro Hanada, temporalità e immaginazione sonora nel primo album del trio apolide toscano

Goro Hanada, nuovo trio apolide toscano dalla lunga esperienza negli ambiti musicale e cinematografico, pubblica "Through metaphors, assonance but mostly by differences", esempio creativo di colonna sonora immaginaria che riscrive in modo critico modelli conosciuti, per rimodularli altrove. Oltre a proporvi i tre videoclip già realizzati, abbiamo parlato con loro con un'intervista che racconta l'album, realizzato tra Italia, Olanda e Germania, con il mastering di Conor Dalton.

Through metaphors, assonance but mostly by differences è il primo disco di Goro Hanada, nuovo trio apolide toscano dalla lunga esperienza e dalle molteplici vite negli ambiti musicale e cinematografico. Alessio “Ciborio” Gioffredi (batteria, drum machines e percussioni), Patrizio Gioffredi (chitarre, synth) e Alessio Pepi (basso, synth) hanno già lavorato insieme come Dilatazione e Band del Brasiliano, oltre ad assumere ruoli diversi nel collettivo Snellinberg, che ha prodotto numerosi videoclip, cortometraggi e due lungometraggi.
Individualmente attivi nei campi della produzione musicale, cinematografica e nel sound design, hanno unito nuovamente le forze per un progetto che ospita musicisti come Paolo Raineri alla tromba e al flicorno, già con Calibro 35 e Ottone Pesante, Mirko Bertolucci alla chitarra, e il noto ingegnere del suono Conor Dalton che ha masterizzato il disco nei suoi Glowcast Audio Mastering di Berlino.

Goro Hanada – il video di “The Third Part of the night”, editing di Patrizio Gioffredi

Pur muovendosi nell’ambito della musica che nasce dal mondo delle immagini, quelle già storicizzate e quelle ancora da inventare, il lavoro di Goro Hanada non è un semplice esercizio di congiunzione tra estetiche elettroniche e colonne sonore, ma una messa in tensione delle loro complessità.
Viene ridefinito lo spazio narrativo attraverso il suono, dove la discontinuità diventa vero e proprio dispositivo formale. In questo tessuto compositivo, l’elemento percussivo, sintetico o meno, convive con tessiture e modulazioni timbriche che agiscono come segni visivi, evocando frammenti di immagini non viste, ma percepibili.

Idealmente, al netto di quei gusti che il trio aveva già rivelato con altre produzioni, tra tutti la parabola creativa del rock strumentale statunitense degli anni novanta, viene in mente John Carpenter che scrive nuove possibili colonne sonore insieme al figlio Cody.

L’album si muove allora entro quel registro che potremmo chiamare cinema immaginario sonoro, dove il ritmo traccia narrazioni molteplici e i groove sono trattati con una precisione formale che ricorda certe esperienze elettroacustiche. Ecco che la tensione tra ripetizione ossessiva e sospensione dà la dimensione di un’estetica che cerca il sublime nel dettaglio. Allo stesso tempo la melodia, quando appare, si manifesta come figura emersa da una foschia, un’epifania provvisoria niente affatto rassicurante, che apre al risveglio verso territori sonori costantemente instabili.

L’album tende allora verso quello che la teoria contemporanea anglofona descrive come narrative-driven experimentalism, pratica che non sacrifica la componente sperimentale sull’altare della forma astratta, ma che la integra in strutture che raccontano, evocano, rimandano a immagini interiori o cinematografiche, pur restando interamente autonome.

Goro Hanada – il video di “A ghost story” – editing di Patrizio Gioffredi

Ciò che è interessante è come Goro Hanada riesca a raggiungere un alto livello emotivo sbarazzandosi dell’evocazione nostalgica o della citazione esplicita di un immaginario già codificato; la prassi è allora quella della riscrittura critica di quei modelli, tra cui il noir, il paesaggio urbano, il western metropolitano, gli echi della colonna sonora classica, tutti rimodulati, distorti e contaminati.

L’approccio al suono è sistematico e le relazioni microstrutturali (come il modo in cui sintetizzatori e basso interagiscono, o come la timbrica della chitarra dialoghi con la spazialità ambientale) sono curate come se fossero elementi di mise-en-scène sonora. C’è una chiara consapevolezza del dispositivo tecnologico, perché le macchine (synth, drum machines) non sono semplicemente un mezzo, ma agenti significativi, elementi che alterano la temporalità, la spazialità, la percezione.

E c’è anche una dimensione estetico-politica implicita, se pensiamo che scegliere di operare nello spazio dei confini è comunque un atto di dislocazione rispetto alle forme dominanti, un gesto che richiama la critica culturale che analizza come i generi musicali vengano costruiti, definiti e confinati.

Goro Hanada propone allora una scena mentale in cui l’ascolto è reale attraversamento di differenze. Non è più sufficiente che la musica intrattenga, che riempia spazi; essa deve mettere in crisi l’idea stessa dello spazio sonoro ordinario, lavorare sulle rotture, usare la metafora come struttura di pensiero. L’album risulta così non soltanto un prodotto artistico, ma un campo di indagine su cosa significhi fare colonne sonore oggi, su cosa significhi far coesistere elementi disparati senza cedere all’appiattimento corrente e soprattutto, su come si possa costruire una narrazione sonora che sia tanto rigorosa quanto immaginifica e libera.

La tromba, introdotta come elemento chiave, agisce come significante fluttuante, con il potere di spostare l’intera semantica del brano verso un registro noir, pur senza aderire alla grammatica jazzistica tradizionale. Non si tratta di semplice pastiche, ma di una rielaborazione che produce un effetto di straniamento, dove l’ascoltatore riconosce un territorio emotivo, ma ne percepisce lo scarto e la differenza.

E il titolo stesso del disco ci suggerisce una prassi teorica, con la sua enfasi su assonanze e differenze, sembra dichiarare un’estetica che privilegia l’eterogeneo rispetto ad altre similarità. Da un lato, l’album dialoga con genealogie sonore precise, Chicago anni ’90, club culture, jazz contaminato, soundtrack minimalista, ma dall’altro le frattura, le reinterpreta, le piega. Ciò che conta allora non è la coerenza stilistica ma la capacità di far emergere il negativo e di perturbare la superficie.

La componente visuale, con i sette videoclip realizzati attraverso stock footage, completa il dispositivo e lo porta verso una forma di cinema espanso dove la musica diventa strumento di risignificazione delle immagini, mentre le immagini retroagiscono sul significato della musica, in un dialogo intermediale che ricorda le pratiche della visual music e del cine-mixage.

Goro Hanada non propone semplicemente un album confinato nella sua cornice di riferimento, ma un campo di forze, un laboratorio in cui il suono diventa critica culturale.
Il lavoro su ritmo, timbro e spazialità non mira a un’immediatezza percettiva ma a una attenzione intensificata. L’espressione è di Jonathan Sterne e mi serve per definire l’ascolto come prassi chiamata a decodificare, a perdersi e ritrovarsi in un paesaggio acustico che si fa insieme mappa e enigma.
È musica questa che esige una partecipazione riflessiva, capace di accogliere la complessità e di abitare quello spazio “di confine” che il trio dichiara come proprio.

Ne abbiamo parlato insieme con un’intervista (dopo il video e i contatti)

Goro Hanada il video di “Club-shaped antennae” – editing di Patrizio Gioffredi


Through metaphors, assonance but mostly by differences è uscito per Glass Museum Records con distribuzione Triple Vision in vinile e in digitale.

Glass Museum Records su Instagram 
Glass Museum Records su Soundcloud

Per informazioni e contatti:
Contatti:

glassmuseumrecords@gmail.com

Booking:
cyb.promotion@gmail.com

Topografie del suono, il dispositivo noir di Goro Hanada, l’intervista

Il nome Goro Hanada si riferisce al personaggio dal killer ne “La farfalla sul mirino” di Seijun Suzuki: cosa vi affascina di quel personaggio e di quel cinema noir giapponese tra genere e sperimentazione linguistica? Quanto questa suggestione ha influenzato il suono del disco?

Stavamo montando la prima bozza di un videoclip per un brano del disco, Club-shaped antennae. Il video del brano è un ri-editing di un vecchio documentario didattico degli anni ‘50 sulle farfalle. Grazie a quelle immagini, per assonanza, ci è venuto in mente il film di Suzuki, nel quale le farfalle giocano un ruolo fondamentale. È un film che amiamo molto. Ci affascina la libertà totale che Suzuki ha nell’approcciare la materia filmica, partendo dai codici del genere per stravolgerli appunto in una chiave sperimentale. Nel richiamo al film è nascosta quindi anche una sorta di dichiarazione di intenti.
E poi, ovviamente, il nome del killer ci piaceva e suonava bene.

Provenite tutti da esperienze molto diverse: produttori, registi, sound designer. Come si è strutturato il processo compositivo? C’è stata una divisione dei ruoli o un flusso libero e combinatorio tra tutti gli elementi della band?

Vivendo in due Paesi differenti (Olanda e Italia), il processo creativo si è sviluppato come un flusso continuo a distanza di condivisione di idee e bozze.
Tendenzialmente siamo partiti dalla ritmica. Su un primo gruppo di bozze c’è stato un lavoro di almeno un anno nel quale abbiamo improvvisato, prima di avere le idee più chiare sul tipo di suono e immaginario che volevamo creare. Poi c’è voluto un anno ulteriore per trovare le melodie che ci piacessero. Ci stanchiamo facilmente delle melodie troppo facili e abbiamo scartato per questo motivo almeno una decina di brani. Su brani ancora “incompleti” ci siamo fatti aiutare da Mirko Bertolucci, che aveva già suonato con noi la chitarra nei Dilatazione e da Paolo Raineri che conoscevamo per le attività con Ottone Pesante, Junkfood e Calibro 35 e che ha quell’attitudine al jazz contaminato che più ci piace. Hanno dato tantissimo ai brani in termini emotivi.
I nostri ruoli, ormai ben definiti dopo anni passati insieme a produrre dischi in diversi progetti, si sono naturalmente consolidati (Patrizio si occupa principalmente della parte melodica, Ciborio lavora soprattutto sulle sfumature ritmiche, Alessio assembla e modella il materiale traghettandolo spesso in traiettorie diverse da quelle che aveva all’inizio). Ma anche nei ruoli non ci sono regole e spesso ci scambiamo gli strumenti. In generale diremmo che il flusso è assolutamente libero.

Il disco alterna malinconia e tensione, groove e atmosfere sospese, dove mi sembra rimanga centrale una dimensione sonora urbana. Come lavorate sul bilanciamento emotivo dei brani? È un lavoro istintivo o ragionato in fase di produzione per costruire una narrazione precisa?

Onestamente, non ci siamo mai imposti un piano preciso né per la realizzazione né per la sequenza dei brani. È un processo che avviene in modo piuttosto naturale. In linea con la tua domanda, possiamo dire che l’istinto ha sempre avuto un ruolo molto più importante della razionalità.
Se è vero che certi film spesso si scrivono al montaggio, il nostro disco è sicuramente nato durante il missaggio. È in questa fase che iniziamo davvero a strutturare l’album, riflettendo con più attenzione sull’alternanza di sfumature ed emozioni.

Nella vostra musica c’è un’ibridazione tra diversi mondi: post-rock anni ’90, club Culture, jazz contaminato. Quali sono i riferimenti sonori più importanti per voi?

È superfluo dire che eravamo, siamo e continueremo a essere fortemente influenzati dalla scena musicale di Chicago, sia quella legata al post-rock degli anni ’90 sia al contemporary jazz dei giorni nostri.
Abbiamo trovato grande ispirazione nel materiale prodotto da etichette come International Anthem e Thrill Jockey e da artisti come Tortoise, Rob Mazurek o Makaya Mccraven.
Siamo da sempre appassionati di colonne sonore, amando il cinema almeno quanto la musica.
Abbiamo seguito con attenzione l’evoluzione della club culture negli ultimi vent’anni.
In questo disco quegli ascolti sono emersi in maniera più preponderante rispetto al passato.
Abbiamo colto dettagli e spunti che abbiamo sviluppato accanto alla componente più acustica del nostro sound. Se dovessimo citare due nomi legati all’elettronica diremmo Oscar Mulero e Quelza, che tra l’altro hanno collaborato con l’etichetta Immaterial Archives che Ciborio gestisce in Olanda.

Anche il jazz scritto per i film noir giapponesi tra i sessanta e i settanta?

Forse più il jazz polacco di quegli anni! In particolare Krzysztof Komeda. La colonna sonora di Le départ di Skolimowski per dire ha melodie di una semplicità disarmante, ma non stancano mai. È un modello, così come lo è un Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis. Ecco, l’unica certezza che abbiamo avuto da subito è che serviva una tromba nel disco, per sviscerare appieno l’anima noir che stava spontaneamente emergendo.
La malinconia del noir è un mood internazionale, trasversale, che attraversa gli oceani e unisce cinematografie di nazionalità e epoche diverse. In termini di assonanze ci sono molte similarità tra le colonne sonore di Hisaishi per Kitano e Tony Arzenta di Gianni Ferrio, per dire, che sulla carta sono due nomi diversissimi.
Ci sentiamo molto vicini non tanto alle singole esperienze – stiamo citando maestri assoluti -, ma a quella sensibilità.
I giapponesi hanno una tradizione fusion e un gusto talvolta “kitsch” che certo non temiamo, ma nessuno dei tre possiede una tecnica da jazzisti e ci limitiamo ad evocarne il mood con i nostri mezzi.

L’album circola anche grazie ad una serie di videoclip che ne fanno un lavoro fruibile in termini visual. Potere raccontarci il lavoro svolto, le immagini scelte, l’approccio e la costruzione narrativa in fase di editing?

I video sono nati durante la lavorazione del disco e in qualche modo hanno dialogato con questo, anche nella scelta dei titoli, dell’immaginario che volevamo imprimere, della cover (che è una bellissima opera minimale dell’artista giapponese Hachiro Kanno). Su Internet Archive c’è una miniera d’oro per i feticisti del montaggio. Sono perlopiù scarti dalla lavorazione, b-roll e take alternative da film, soprattutto noir, degli anni ‘40 e ‘50, disponibili in creative commons e rimasterizzati ad altissima qualità. Ci siamo divertiti a combinarli tra loro, rispondendo ai solleciti della musica.

I video saranno tutti found e stock footage oppure avete pensato anche di realizzarne uno completamente originale?

Per questo disco ci siamo limitati allo stock footage, anche a scopo dimostrativo, per evidenziare la capacità della nostra musica di sposarsi ai vari immaginari.
Ci piacerebbe girare qualcosa di originale per Goro Hanada, di sicuro, o fare la colonna sonora del prossimo film di Snellinberg, se riusciremo a trovare i finanziamenti per girarlo. O collaborare con altri registi.
Il progetto Goro Hanada nasce per sonorizzazioni e colonne sonore. Siamo disponibili a qualsiasi esperienza e sfida che vada in quella direzione.

Il disco è stato concepito tra Italia e Olanda e masterizzato a Berlino. Pensate che questa geografia abbia influito sul vostro sound?

Siamo molto soddisfatti del risultato finale di questo primo lavoro. Aver avuto l’opportunità di masterizzare l’album con un maestro come Conor Dalton ha senza dubbio arricchito l’esito finale.
Sicuramente il fatto di vivere in Paesi diversi, a contatto con culture differenti, ha influenzato l’evoluzione del nostro suono. Ma questa stessa evoluzione fa parte di un percorso iniziato da tempo, da quando abbiamo cominciato a suonare insieme come trio.
Goro Hanada rappresenta ciò che oggi sentivamo il bisogno di esprimere. In futuro, non escludiamo che il risultato possa essere molto diverso. Abbiamo sempre affrontato la produzione in maniera naturale, senza farci influenzare in modo marcato da tendenze o linee guida troppo rigide. Non abbiamo mai cercato di realizzare un disco che seguisse le mode del momento o che si inserisse in una scena ben precisa. Stiamo consapevoli che possa trattarsi di un ostacolo, ma il nostro desiderio da sempre è quello di fare i dischi che avremmo voglia di ascoltare come fruitori di musica.

Il titolo dell’album è uno statement estetico e filosofico. Puoi spiegarcelo?

Il titolo del disco vuole sottolineare quanto, oggi, sia difficile comporre musica che non richiami – per similitudini o assonanze – qualcosa di già sentito.
Cerchiamo per quanto possibile di offrire una proposta originale, convinti che siano proprio le differenze e i contrasti a rendere un brano o un album speciale e unico, a modo suo.

Il disco è molto stratificato e curato nei dettagli. Come pensate di portare questi suoni dal vivo? Sarà una traduzione fedele o una reinterpretazione più libera?

Al momento Goro Hanada è un progetto studio. Stiamo registrando i brani per il secondo album, che se possibile sarà ancora più “combinatorio”, con utilizzo di sample strumentali e voci. Ci piacerebbe portare in giro la nostra musica in una dimensione “live”, anche con l’ausilio di un paio di musicisti e la possibilità di improvvisare sui temi, ma ci vogliono le occasioni e gli spazi giusti.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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