King Crimson – 25-07-2018 – Lucca Summer Festival: il report del concerto

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Frastuono e quiete, oscurità e luce. I King Crimson ti proiettano avanti e indietro nel tempo, ti lasciano sprofondare in una dimensione distopica, ti fanno fluttuare in quell’universo sonoro in cui l’incessante esplorazione è il simbolo più scioccante della loro continua audacia. Il chitarrista, Robert Fripp, lungimirante fondatore della band, ha sacrificato di volta in volta i componenti del gruppo per mantenere all’opera il suo genio creativo. In dialogo costante con la musica classica come in Bolero, in una suggestiva interazione con il jazz e con le modalità più tipiche del rock in Pictures of a City, non ammettono mai un esito consolatorio.

Questo doppio quartetto fa il suo ingresso sul palcoscenico del Lucca Summer Festival alle nove precise, eleganti e sofisticati, con le loro camicie bianche e il gilè a doppio petto ben abbottonato, iniziano quando sulla folla in ritardo discende il panico. Teste chine e passo veloce per raggiungere il proprio posto a sedere. Freddi, imperturbabili, non si rivolgono mai al pubblico ma lasciano che la musica sia il loro unico mezzo d’espressione. I brani che si susseguono riempiono quei vuoti lasciati dalle parole in una concatenazione narrativa che costruisce storie ricche di suggestione.

In the court of the Crimson King, traccia che dà il titolo al loro primo album del 1969, quando le proteste contro la guerra in Vietnam stavano prendendo una piega più dura, è una specie di carnevale cosmico, un incrocio di dissonanze e di ritmi coinvolgenti. La platea rapita applaude ma la voce Jakko Jakszyk è di nuovo nell’aria, poetica e lirica, per una versione avvincente di Cirkus completata da un assolo struggente del flauto di Mel Collins. Indiscipline chiude il primo atto, la raffica implacabile di arpeggi della chitarra di Fripp è bilanciata dal basso palpitante di Levin. Venti minuti di pausa per prendere fiato e comprendere meglio i King Crimson, il loro modo di fare, intuire quanto questo virtuoso chitarrista che ha lavorato con Brian Eno, David Bowie e Peter Gabriel abbia modellato il lavoro di un’intera band straordinaria.

I protagonisti di questo secondo tempo sono i tre batteristi collocati sul proscenio, Mastelotto, Harrison e Stacey che abbagliano la platea in ogni fase di questo percorso con i loro continui assalti e i gesti teatrali, sollevando le bacchette contemporaneamente per poi riattaccare con la frenetica Neurotica. Un brano del 1982, dall’album Beat che fa risaltare le abilità tecniche di Tony Levin, qui ancora una volta a dimostrare il motivo per cui è tra i migliori bassisti del pianeta. Pur scavando in un repertorio che ha ormai cinquant’anni con Epitaph si ha la sensazione che il tempo non abbia potuto nulla e che valga ancora la pena cercare un sentiero che conduca alla salvezza in un mondo desolato dalla violenza in cui la conoscenza è al servizio della follia.

Starless è la traccia che conclude Red e questo concerto, almeno così sembra, il canto del cigno, che mise fine alla formazione dei King Crimson negli anni Settanta, prima del nuovo corso con Adrian Belew a partire dal 1981. Un triste e umile ritornello eseguito dal violino e l’assolo di Robert Fripp che sembra sottolineare quell’esasperante monotonia, con la crescente nausea per qualcosa che ormai era degno di morire.

La folla non può più sottostare alle regole, si alza e si prende il tempo per un’ovazione prolungata, insicura ma ancora piena di speranza. I King Crimson non tradiscono le attese e tornano sul palco per quell’ultima prova; 21st Century Schizoid Man per concedere ai sudditi burattini quell’ultimo barlume di speranza, ma inesorabilmente restiamo affascinati e piegati al volere del Re Cremisi.