The Good, The Bad & The Queen, straordinari al Lucca Summer Festival: la recensione del concerto

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bdr

“Hanno toccato!” Gli applausi in studio coprono la voce di Tito Stagno dopo 25 ore di estenuante diretta. Come una finestra dalla quale è possibile sfiorare un tempospazio parallelo, i grandi schermi che delimitano il palco di Piazza Napoleone inviano le immagini di quel 20 luglio 1969, quando l’Apollo 11 sbarcò sulla luna. Mancano pochi minuti all’inizio del concerto e forse, l’immagine di quella grande illusione è davvero la più adatta per introdurre lo splendido set di The Good, The Bad and The Queen.

What did you say? Mobility (you can fly)
Get on your mobilised hooters (to the moon)

Merrie Land è anche la storia di un distacco senza allunaggio, un viaggio disperato tra i relitti di una nazione, nel confronto tragico tra i disastri dell’economia globale e le spinte centripete di chi vorrebbe alimentare anni di grande incertezza con il racconto della paura.
Damon Albarn, che è prima di tutto un abile narratore, può finalmente collegare i due capitoli di quest’opera, eseguita sul palco lucchese senza soluzione di continuità, sullo sfondo del Blackpool Pier esteso longitudinalmente dietro all’intero setting degli strumenti, grazie ad un dipinto di enormi dimensioni realizzato dallo stesso Paul Simonon, che con un linguaggio neo-espressionista riproduce lo storico pontile di legno.

In superficie, una catenaria di lampadine a bulbo riprende quelle del dipinto e pende da un lato all’altro del grande sfondo.
Sul palco alcune abat-jour completano la ricostruzione di uno scenario famigliare e intimo, ma allo stesso tempo desunto dal teatro brecthiano, un riferimento che tornerà più volte, con l’incedere à la Kurt Weill di alcuni brani eseguiti dalla band allargata di Albarn e soci, quasi a definire il realismo estremo di un decrepito cabaret, così vicino e così lontano dalla vita e costituito da linee ed elementi spogli ed essenziali.

Blackpool Pier, location eminentemente britannica, sarà l’unica a fuoco durante l’esecuzione dei primi brani, mentre The Good, The Bad & The Queen verranno illuminati in silhouette, come ombre cinesi o le sagome ritagliate di un vecchio teatro di figura, tanto da prendere il posto della tetra marionetta desunta da un classico del cinema inglese del 1945, “Dead of Night”, che invece introduce le clip video ufficiali e i visual che sono circolati in rete dopo la pubblicazione dell’album.

Un approccio carnevalesco, ripreso dai 37 minuti della tracklist originale, che al di là delle premesse quasi antitetiche alla dimensione dell’intrattenimento, fa del pastiche musicale il suo punto di forza, passando dal pop del primo John Barry, al songtelling popolaresco tanto caro ad Albarn sin dai tempi dei Blur, fino a lambire convinte latitudini dub, nel dialogo incessante tra la sezione ritmica e un infaticabile Paul Simonon.

Ed è davvero un grande show, dove colpisce e cattura l’aria di festa che si respira lungo tutto il set, nonostante le premesse legate al tragico quotidiano di cui si narra, dove alle storie di rassegnazione e disillusione, un Damon Albarn in perfetta forma, performativa e forse anche etilica, contrappone la sua inarrestabile energia guascona, giocando con il pubblico, organizzando un singalong collettivo e scassato, passando dal piano al palco, mentre viene inseguito senza sosta dai tecnici che gli aggiustano il lungo filo del microfono, per garantirgli sicurezza ed evitare una caduta rovinosa con tutto l’apparato, durante le sue frequenti incursioni a bordo palco.

Ma è l’amalgama sonoro a fare la vera parte del leone, nel meltin’ pot trasversale e all british messo insieme dalla band che al consueto quartetto ne aggiunge uno nuovo e tutto al femminile al comando della sezione archi, integra un tastierista che aggiusta le derive anarchiche di Albarn al piano ed infine affianca un percussionista che sostiene il drumming cronometrico e sornione di Tony Allen, davvero a suo agio nel continuo oscillare tra torch songs, moderate influenze calypso e quei momenti gamelan che di tanto in tanto emergono dall’ordito.
Simon Tong, responsabile almeno al cinquanta per cento delle atmosfere sognanti e astrali dei brani più recenti tra cui la bellissima “Ribbons”, imposta un suono preciso e quasi d’ambiente, mentre passa a sonorità più pysch nella seconda metà dello show, quando imbraccia una Gibson rosso fiammante per spingere i brani del primo album e traghettare il concerto verso una vera e propria cerimonia elettrica.

Di filologico c’è solo l’ordine in cui vengono eseguiti i brani rispetto alle versioni da studio, per confermare la vocazione narrativa che li lega, ma la resa è assolutamente diversa, più potente e di grande impatto, basta pensare all’esplosione corale di “History Song”, dove l’inno trattenuto dell’originale diventa occasione per innescare un rituale collettivo che si trascina anche dopo la fine del brano, grazie ad un pubblico che ha risposto nel modo migliore alle sollecitazioni di Albarn.

Un collante fondamentale che si conferma con “Kingdom of Doom”, collocata strategicamente durante l’encore, ri-scritta con più forza per il palco e ormai percepita come un vero e proprio classico, con quella struttura che più di altre nel repertorio della band si avvicina al songtelling di Albarn condiviso con i Blur, ma che allo stesso tempo consente di applicare una coda che recupera incedere e sonorità di “London Calling”, con Paul Simonon visibilmente sovraeccitato per  la collisione di una storia sonora e politica, tra gioia e amarezza.

Oltre al compleanno di Tony Allen, 79 anni compiuti e festeggiati sul palco con una sgangheratissima e divertente “Happy Birthday”, Albarn si rivolge spesso alla platea, prima sollecitando il tastierista e le sue conoscenze dell’italico idioma, tutte legate alle indicazioni musicali di tempo, poi gridando un “Fuck politicians” che invece di spezzare l’idillio con il pubblico, lo rafforza anche solo per empatia e risonanza.
Ecco perché quando si accendono le luci senza alcuna speranza di averne ancora, lo spirito e la memoria riflettono il rovescio complementare di una delle più belle canzoni dei Blur, vicina a questo spirito nero agghindato a festa.

I post adolescenti che non si impiccano più allo scaffale della prossima festa, dopo la morte della precedente, escono con la voglia di ubriacarsi ancora un po’ insieme a questa super band che vende benissimo il proprio suffisso, mentre racconti che parlano di oggetti del desiderio vaghissimi e sfuggenti, ti lasciano addosso quel senso non riconciliato di perdita e disperazione che improvvisamente diventa interprete efficace di questi ultimi anni.

La festa è finita. Viva la festa.