sabato, Aprile 20, 2024

J’accuse (L’ufficiale e la spia) di Roman Polanski – Venezia 76, Concorso: recensione

La quantità di riferimenti impliciti al contemporaneo presenti in J’accuse legittima un’ottica interpretativa legata al contemporaneo. Non si deve per questo incorrere in una dietrologia illegittima – movimento interpretativo incapace di trattenere senso dopo averlo intuito e invece soltanto in grado di rilasciarlo come un parere ridimensionante -, piuttosto tentare uno scavo archeologico interessato a reperti senza tempo, intrinsechi alla realtà. Il film stesso aiuta a evitare qualsiasi tipo di associazione dietrologica non pertinente al testo e suggerisce solo una lettura a posteriori dell’evento raccontato (storico e documentato) interessata alla natura dei medium narrativi e dei suoi gestori. L’affare Dreyfus, grave e gigantesco scandalo giudiziario avvenuto nella Francia di fine 1800 per l’ingiusta carcerazione di un membro dell’esercito accusato di tradimento perché ebreo, è leggibile infatti, oltre che una riflessione sul potere e sulle discriminazioni, come una riflessione sulla falsicabilità di ogni medium e sulla conseguente necessità di un’etica del narratore. In quest’ottica la vicenda storica è perfettamente agganciata al contemporaneo: quale epoca migliore dell’oggi dove tutto può essere contraffatto, ogni sguardo ingannato e ogni prova costruita incarna la crisi della veridicità dei linguaggi? Il discorso che Polanski conduce non è sottolineato ma è sotterrato nella superficie della rappresentazione. Non c’è quasi bisogno di certificare la classe con cui il regista configura la realtà storica (dandole un peso, un muscolo, una presenza fisica e attuale sullo schermo), dirige gli attori (utilizzando il loro corpo per comunicarne in anticipo le scelte), scrive la grammatica della scena o lega i temi agli eventi: questi elementi sono presenti nel film, sorprendono ancora per la loro puntualità ma non sono che interventi di cosmogonia, di creazione tecnica di un mondo passato e rappresentabile. La riflessione sulla contraffazione invece costituisce il passaggio interno, la dissolvenza progressiva nel nucleo del racconto. È intorno a questa tematica che si articola l’arco drammatico di un individuo, l’ufficiale-detective Piquart (Jean Dujardin), interessato a scoprire la verità disvelando piano piano tutte le falsificazioni documentarie e quindi denunciando sia l’inattendibilità narrativa del punto di vista istituzionale (con cui si apre il film) e l’incompetenza etica dello stesso. La storia della scoperta della verità per dimostrare l’innocenza di un uomo è una chiamata all’etica della narrazione (si pensi a chi scriverà il “J’accuse”). Perché in un mondo dove contano le storie, dove le storie governano i pensieri delle persone e dove ogni storia può essere venduta per vera anche quando è falsa, l’imperativo categorico è essere un narratore onesto.

Leonardo Strano
Leonardo Strano
Primo Classificato al Premio "Alberto Farassino, scrivere di Cinema", secondo al premio "Adelio Ferrero Cinema e Critica" Leonardo Strano scrive per indie-eye approfondimenti di Cinema e semiotica. Ha collaborato anche con Ondacinema, Point Blank, Taxidrivers, Filmidee, Il Cittadino di Monza e Brianza

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