domenica, Aprile 28, 2024

Father and son di Kore-eda Hirokazu: la recensione

Sono sei anni dalla nascita del piccolo Keita, sei anni durante i quali l’affermato architetto Ryota e sua moglie Midori non sono stati in grado di avere altri bambini, sei anni che assumeranno un valore diverso quando verrà comunicato loro che il figlio non è quello biologico, ma il frutto di uno scambio di culle avvenuto nell’ospedale dove lo stesso giorno nasceva Ryusei, cresciuto con quel nome da un modesto elettricista chiamato Yudai e da sua moglie Yukari, cameriera in un ristorante, insieme ad un nucleo numeroso e grazie ad un’armonia in apparente contrasto con i limiti economici della coppia.

Il confronto tra le due famiglie sarà inevitabile, non solo su un piano giuridico, ma sopratutto su quello umano e personale. Non sono semplicemente le differenze sociali quelle che interessano a Kore-eda, ma la mutazione del sistema familiare in un’accezione del tempo Storico che nel cinema del grande autore giapponese interagisce con un’idea della memoria non lineare ma stratificata.
La memoria, per Kore-eda, è un sistema dinamico, e l’atto del ricordare, movimento che attraversa tutto il suo cinema, non è mai ridontante ma “ci sfida a cambiare e ad arricchirci”.

Una riflessione che sembra quasi suggerita da quell’idea Bergsoniana di durata, come progresso del passato che contamina il futuro e che in questo movimento si accresce senza distruggere; un passato che accumulandosi si riattualizza in ogni momento in relazione a quello che abbiamo sentito, provato, esperito sin dai nostri primi giorni e che in qualche modo assorbe le altre dimensioni temporali. Non una “minaccia” ma una compresenza di stati; una relazione possibile quindi, questa con Bergson, che in qualche modo si lega all’interesse di Kore-eda per l’infanzia, presente a vari livelli nell’opera dell’autore Giapponese, anche come radice Storica del cinema Nazionale,  percorso di riferimento più volte evocato (Ozu e Naruse ma anche Kurosawa in Hana) e che in certi casi è stato erroneamente scambiato per rispettoso omaggio, cosi, come se il tempo non fosse mai (anche) “passato”.

La relazione con la tradizione è quindi assolutamente dinamica per Kore-eda; anche se si volesse per forza riferirsi al cinema di Yasujirô Ozu, identificando una fonte di ispirazione per Still Walking, Nobody Knows, e per questo Like Father, Like Son, situata tra Tokyo monogatari e Ohayô questa assumerebbe la forma di un rovesciamento proprio quando alcuni elementi, sopratutto dell’immagine, sembrano al contrario coincidere; basta pensare a quale relazione ha un film come Hana con le convenzioni della tradizione Jidaigeki, e quanto, la poetica sottrattiva di Kore-eda dialoghi fortemente con la disgregazione post-moderna in un modo sottile, per niente evidente, ma in costante dialogo dinamico con il tempo, cosi da definire un linguaggio e uno stile sempre flagrante, vivo, mai ancorato alla zavorra delle citazioni.

Inutile allora in questa sede, attardarsi sulle analogie e sulle differenze tra il cinema di Kore-eda e quello di alcuni maestri a cui si riferisce in modo spesso molto complesso, perchè in questo contesto, per esempio, sarebbe come aver la presunzione di riuscire a delineare in poche righe il cambiamento della famiglia giapponese, da quella raccontata nel cinema di Ozu a questa contemporanea, attraverso un percorso socio-politico che include la disgregazione di un’istituzione che è anche un cambiamento dello sguardo, un progressivo venire a mancare di segni, figure, riferimenti. Il centro materno che si stringe attorno ai figli in Good Morning di Ozu, trova il suo rovesciamento nell’assenza della madre di Nobody Knows, cosi come l’intrusione della tecnologia “elettrica” e “catodica” nel Giappone degli anni ’50 nello stesso film di Ozu è osservato da una prospettiva inedita in alcune sequenze sottilissime di Like Father, Like Son, tra cui la sfida a colpi di Wii con la nonna, ma allo stesso tempo l’umanissima e struggente relazione con la fotografia digitale, strumento di una doppia e fortissima agnizione emotiva nell’ultimo film di Kore-eda, dove padre e figlio si osservano a distanza attraverso un dispositivo che coglie e cattura il ricordo come movimento dell’anima; un riferimento anche in questo caso alle proprietà mnestiche della fotografia che da una dimensione sterilmente nostalgica, slittano di senso verso una riflessione sulla memoria come agente del cambiamento, quello interiore di Ryota.

L’interesse di Kore-eda, dichiarato esplicitamente più volte, per gli eventi drammatici “poco prima o poco dopo la  loro manifestazione”, attraverso la concentrazione  “sulle premonizioni e sulle rifrazioni”, in una incessante ricerca sull’essenza della vita, è anche in questa attenzione agli oggetti e al vuoto che lasciano, agli elementi materiali della memoria, ai piccoli segni quotidiani, allo spazio dell’inquadratura che anche da montatore, Kore-eda non frammenta quasi mai, cercando al contrario la libertà del gesto nella co-esistenza di più livelli all’interno del  piano. E non è mai una costruzione drammaturgica  percepibile, perchè la distanza che il regista giapponese mantiene con la vita del set gli consente di non pre-disporlo, ma di far si che in qualche modo sia possibile un avvicinamento dello sguardo come confronto e scelta.

Quella che allora, per certa stampa angolofona, è un’opera che risente di un certo schematismo nel delineare le differenze sociali tra le due famiglie, è al contrario un sottile percorso di mutazione che si interroga sulle relazioni di sangue come tracce e legami che in qualche modo vengono se non superate, arricchite dalla persistenza della memoria; lo schema viene quindi rovesciato, inabissato nel tempo, e arricchito da una percezione orizzontale della Storia, basta solo pensare a come Kore-eda riesca a raccontarci sessant’anni di racconto famigliare giapponese attraverso alcuni elementi che colgono Ryota da solo, assalito dal suo passato, mi riferisco alla sequenza dove in macchina dialoga al telefono con la possibile seconda moglie di suo padre, e alla stessa figura paterna, quella di un uomo dall’esuberante arroganza vitale e allo stesso tempo ancorato ad un’idea di passato impermeabile alla mutazione.

La famiglia immaginata da Kore-eda allora, entra improvvisamente in una dimensione di allargamento delle sue funzioni come unica possibilità di sopravvivenza anche nella sovrapposizione tra tradizione e contemporaneità;  disfunzionale avremmo potuto dire, ma rispetto a quale norma, sembra dirci Kore-eda, la “funzione” non è altro che una limitazione alla libertà di amare?

Ancora una volta, è lo sguardo dei bambini che assume un valore “creativo”, che rimette in discussione la parola e il gesto codificati; la famiglia vista dal loro punto di vista è un insieme di regole già superato da una conoscenza anteriore. Figli di un intreccio delle infinite memorie che li hanno preceduti, conservano ancora un rapporto libero con questa enorme conoscenza e in grado di entrare e uscire dal mondo; solo uno schema può ucciderli; e se lo sguardo, nel cinema di Ozu, secondo una diffusa e ormai retorica nozione critica, era posto all’altezza del Tatami, quello di Kore-eda, che suggerisce e spesso dialoga con il vuoto, è in quella manifestazione dell’invisibile che solo i bambini riescono a vedere.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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