Jersey Boys di Clint Eastwood: la recensione

2833

Nel classico L’Asso nella manica, il cronista Chuck Tatum (Kirk Douglas), pronto a tutto per ottenere uno scoop, schiaffeggiava l’altrettanto cinica Lorraine Minosa (Jan Sterling), moglie del miserabile Leo Minosa, per giorni intrappolato da una frana. “Big girls don’t cry”, mormora assorto Bob Crewe, navigato manager, songwriter e producer, mentre contempla il volto beffardo di Jan Sterling incastonato nel piccolo schermo del suo ufficio-appartamento traboccante di opere d’arte e giocattoli di lusso. Il produttore musicale incrocia lo sguardo pensieroso dell’altro Bob (Gaudio) nella stanza e il gioco è fatto. Dall’amarissimo capolavoro di Billy Wilder nasce la nuova zuccherosa hit dei Four Seasons – la canzone Big girls don’t cry  con la voce da tenore, ma in falsetto, del frontman Frankie Valli pronta a esplodere dalle radio, riscaldando i cuori di una generazione di fan.

Clint Eastwood sceglie un jukebox musical (di successo e pluripremiato) di Broadway – di cui recupera molti degli interpreti (fra cui  John Lloyd Young nel ruolo di Frankie Valli), facendoli cantare in presa diretta – dedicato alla storia del gruppo musicale “più popolare prima dei Beatles” e ne fa un film che ripercorre le (più o meno) tormentate esistenze di quattro ragazzi del New Jersey alla ricerca di fama e fortuna. Jersey Boys ne racconta, intrecciandole, i percorsi personali e artistici dalla fine degli anni ’50 alle hit da solista del frontman Frankie Valli (su tutte Can’t Take My Eyes Off You), passando per grandi successi come Walk Like a Man e Sherry e raggiungendo, con un salto temporale di qualche decennio, il 1990, anno in cui i quattro si incontreranno di nuovo in occasione dell’inclusione della band nella Rock and Roll Hall of Fame. E’ proprio qui – nella contraddizione tra cinismo e patina zuccherosa, tra l’apparente armonia della boy band che manda in delirio i fan e le lotte sempre più furibonde fra i suoi membri, incapaci di districarsi fra eccessi da star e attaccamento alle origini popolari – che sta il motore del film di Eastwood. È una corsa verso l’autoannientamento che prende la forma del musical e si avvale di una partitura leggera e brillante (la sceneggiatura di Rick Elice e John Logan), tingendosi di tragedia (la morte della giovane Francine) e di nostalgia (per un mondo che, dopo la fine degli anni ’80, termine ultimo oltre il quale il film non si spinge, sembra ormai inesorabilmente tramontato), fino al carosello finale in cui tutti, buoni e cattivi, ballano e cantano insieme, come in un musical appunto (o come in una danza macabra?). E’ un senso di sgretolamento, velato da ironia baldanzosa, quello che lambisce da vicino un immaginario dominato da brillantina, hamburger a due soldi, macchine decappottabili e giacche sgargianti.

Il racconto si costruisce per somma di aneddoti, articolandosi in quattro macrosezioni (gli inizi di carriera, il successo, la rottura, la rinascita), commentate dagli stessi membri della band che, come nell’originale teatrale, sfondano la quarta parete e si rivolgono direttamente al pubblico, creando una polifonia di voci e di mezze verità sovrapposte (ma la narrazione è decisamente più lineare di quanto non accadesse in Bird). L’avvio, con la ricostruzione della vita di quartiere nei primi anni ’50, pare materiale per un film di Scorsese. Troppo giovane perfino per il carcere, Francesco Castelluccio (il futuro Frankie Valli) fa il barbiere di giorno, canta di sera e ruba di notte. Qualche furto con scasso e qualche smercio illegale. Il modello è Sinatra, amico dei mafiosi, conteso dalle donne, adorato dai fan. L’irruento chitarrista Tommy De Vito fa da maestro di vita. Il bassista Nick Massi gli insegna tutto quel che sa sulla musica. L’incontro con il serafico Bob Gaudio, autore poi di molte hit dei Four Seasons, e con il produttore Bob Crewe, faranno la differenza. Qualche anno dopo, fra cambi di nome, matrimoni, grandi feste e qualche visita alle carceri statali, Frankie Valli and The Four Seasons finiranno stabilmente nella della Billboard Hot 100, risultando una della band più popolari fra i ’50 e i ’60.

Il gruppo, almeno nel suo assetto originario, si esaurisce per autocombustione, semplicemente implode sotto i colpi di inconciliabili differenze che il frontman Frankie Valli cerca per troppo tempo di tenere a bada. Travolti da un successo troppo grande per gente abituata a risolvere contratti con una stretta di mano, i Four Seasons originali non sopravvivono a se stessi (non possono farlo sembra dirci Eastwood), corrono a tutta velocità verso la propria fine. Bob Gaudio è troppo calcolatore, Tommy De Vito troppo prepotente, Nick Massi troppo gregario. Frankie fa da collante, fino alla scena madre a casa del boss Gyp De Carlo (Cristopher Walken, deliziosamente sopra le righe) dove, tra senso di resa dei conti, reciproci insulti e abbandoni del campo i quattro sembrano prendere strade diverse.

Nella mancata scelta di un registro specifico, in continua e altalenante immersione ed emersione fra ostentata leggerezza e tentata profondità – musical brillante, romanzo di formazione, ricostruzione storica di un’epoca, voglia di esplorare i caratteri, sprazzi di mafia movie all’acqua di rose, riflessione più ampia sulla relazione fra successo di pubblico e squallore esistenziale – sta al tempo stesso l’elemento di interesse e di debolezza del film, che mette tanta carne al fuoco e si rifugia in dialoghi scoppiettanti per non risolversi in uno stantio biopic. Tuttavia, malgrado qualche intuizione registica per risolvere passaggi altrimenti didascalici – si pensi al già molto citato carrello verticale con cui Eastwood introduce il Brill Building, il tempio della musica dove i nostri entreranno come signori nessuno, per uscirne già star – la sensazione è quella di aspettare troppo qualcosa che finisce per non succedere mai.