Lo sguardo di Satana – Carrie di Kimberly Peirce: la recensione

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Si potrebbe tentare di non essere impietosi e riconoscere a Kimberly Pierce almeno il coraggio nell’apporre il proprio nome ad un prodotto che nasce già sotto l’ingombrante, malevola, ombra del capolavoro ineguagliabile di De Palma (che è De Palma!) ed attribuire tutta la colpa, nell’opportunistica volontà di svecchiare l’antico modello per le nuove acerbe generazioni da multiplex, alla sordida brama di investitori privi di scrupoli. Ma porsi con sguardo vergine, davanti un’opera che ha l’ardire di confrontarsi con la leggenda, fingendo che sia la prima volta, senza dare avvio al gioco tirannico del confronto è impossibile. Tanto più che Pierce, superato lo sketch in incipit in cui finge un recupero filologico del testo kinghiano (la rivelazione del torto subito dalla signora White), subito montato da una brutale ma esasperata esagitazione melò, azzarda il lusso sprovveduto di svolgere il resto della pellicola come un  remake del film del ’76.

Ma a toccare il capolavoro ci si scotta ed è, a meno che non si voglia offrire una rilettura filtrata da un proprio personale punto d’osservazione, del tutto superfluo farlo. Il Carrie del 2013, gioiosamente riaggiornato all’attualità, però, non fa altro che inseguire il suo illustre predecessore sul piano della copia; un piano che potrebbe, al netto di ogni perplessità, produrre risultati anche ottimi come lo Psycho di Van Sant (opera tributo e, al contempo, apologia della riproduzione e finanche del plagio) ma che qui diviene o un pallidissimo gioco prossemico e niente più o al massimo uno scherzetto pronto per la seconda serata di MTV. Perché, è vero che la pellicola è carica di miti d’oggi (gli smartphone, Youtube), così com’è vero che i rituali adolescenziali in ottica prettamente stars and stripes (la festa di fine anno) sono osservati con distacco e profonda diffidenza ma, come avveniva già nel pessimo ed ovviamente sopravvalutato Boys Don’t Cry, Pierce non è in grado di penetrare le dinamiche umane oltre la lamentela paternalistica, impedita com’è anche solo di scalfire ciò che tenta disperatamente di raccontare. Alla fine ci si ritrova con una pletora di faccette smaliziate di giovani attorucoli di scarse speranze che si muovono, si atteggiano e si pettinano come i protagonisti della versione americana di Skin; la serie inglese col bambino di About A Boy, divenuto grande e con la faccia da stronzo, che fingeva di osservare i cosiddetti “giovani”, narrando, in realtà e senza esserne cosciente, il deserto culturale di una generazione, con taglio disincantato e cinico oltremisura. Nel Carrie odierno, insomma, ci si scorna e schernisce a colpi di social network e lo scherzo nelle docce viene ripreso e postato in rete a completamento dell’atto già di per sé crudele.

Tutto quello che di buono emerge dal film è appannaggio della storia, che quella è e quella rimane, e delle soluzioni rubate a De Palma. Di fatto poco o nulla viene recuperato direttamente dal testo di zio Stephen, che sarebbe stata l’unica operazione logica e comprensibile, ma tutto è prima visto attraverso il prisma dell’autore de Gli Intoccabili, poi irrimediabilmente svilito. Ad esempio nella stessa scelta di tradire il romanzo proprio nella persona della protagonista, che anche qui non è una grassa brufolosa, come sulla pagina scritta, ma una ragazzina di bell’aspetto solo un po’ trascurata. La Spacek di oggi, però, è Chloë Grace Moretz che è simpatica a tutti perché ha fatto Kick Ass, perché piace a Burton e Scorsese e frequenta l’horror con una certa regolarità ma le sue camminate a capo chino, i suoi urletti e le sue lacrimucce, riescono tutt’al più ad irritare. Niente della vecchia spiritata Carrie resta sul bel visetto levigato di questa teen ager contemporanea che è, sì, vittima di una vita di frustrazioni e soprusi, ma che sembra godere della stessa aura disincantata dei suoi temibili compagni di scuola. Neanche Julianne Moore, con un’interpretazione dignitosa ma incontenibile, in un ruolo a lei congeniale di madre disturbata (vedi Savage Grace di Tom Kalin), riesce a restituire un grammo dell’inquietudine di cui il suo personaggio è carico e che, pur non essendo del tutto fedele a quello di King, comunicava ai tempi una Piper Laurie in stato di grazia. La sua signora White perde il portato di invasata di provincia, oscura, minacciosa e terrifica, divenendo una povera isterica con deliri religiosi e niente più.

La parabola di Carrie, che nel sangue viene concepita, nel sangue scopre se stessa e nel sangue trova la propria fine; la metafora del passaggio all’età adulta attraverso la sessualità e il corpo, sfociante nella rivelazione dei poteri medianici; la profonda valenza uterina di una storia di donne, in cui la mascolinità è ora proprietà devastatrice, ora carattere puramente funzionale, vengono prosciugate da una visione priva di sguardo, da un parterre di interpreti fuori luogo, dalla superficialità e dalla mancanza di un linguaggio adeguato.

In questo esemplare è il tentativo di riprendere fedelmente la tranche finale, con l’ecatombe del gran ballo. L’autentico attacco antisociale che era l’annientamento di uno fondamentali dell’immaginario USA (che abbiamo imparato a conoscere attraverso miriadi film, telefilm e programmetti tv da incubo), il rito di passaggio ad un’adultità integrata e borghese, da parte di un “ultimo” (diverso al punto da possedere poteri soprannaturali che lo allontanano per sempre dagli altri) che era per King ma, soprattutto, per De Palma, qui diviene uno sfogo di effetti speciali con la piccola Carrie, coperta dal sangue di maiale, intenta a farsi il vuoto intorno muovendo i propri poteri arcani con una gestualità massima che, forse (ma solo forse), vorrebbe rimandare ai classici in stile I Vampiri Di Praga di Browning, completando una sequenza che muore in una messinscena goffa, stentata, mutando lo zenit di tutta la narrazione in un nadir posticcio, quasi già una parodia, molto più traballante di Zapped! Il College Più Sballato D’America (parodia in tempo reale, dell’81).

Anche il finale, con atroce confronto madre/figlia, ancora una volta smarrisce il senso più reale dello scontro generazionale insito tra le righe dell’esordio epocale dello scrittore di Portland: la volontà repressiva da un lato, l’ansia di emancipazione dall’altra, sublimata nel cortocircuito tra fede fondamentalista e mistero terreno. Perché del signore degli inferi, aldilà del titolo che insegue Carrie da trent’anni in qua (questa volta addirittura invertendo l’ordine d’apparizione), non v’è traccia nel racconto della povera disperata adolescente di provincia, i cui poteri non sono mai spiegati fino in fondo ma che mai sono da intendersi come soprannaturali: più una forza interiore, misteriosa, ancestrale quasi, che muta e si fortifica con l’acquisto della consapevolezza, nel disvelamento di quel sé sepolto e svilito, ottenuto dal confronto forzato, naturale, con la propria femminilità. L’apoteosi di ogni sindrome mestruale tramutato in potere medianico. Niente degli eccessi visivi di De Palma ci viene restituito, neanche in minima parte: la ripresa dal basso con la Laurie con coltello in pugno, sguardo assente e sorriso raggelante, cedono alle lusinghe del nulla più nero.

Operina di terza, insomma, che sta su malamente e solo in forza di uno script, vero protagonista e vincitore dell’operazione, che, al contrario, afferma la sua potenza proprio in virtù di questa possibile continua riattualizzazione. E’ pur vero che la creazione deve vivere di rielaborazioni, riletture, riformulazioni, a costo della morte del proprio autore ma, con buona pace di Barthes, qui l’aggravante è la premeditazione.