The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese: la recensione

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Martin Scorsese, con The Wolf of Wall Street, ritorna al suo cinema di sperimentazione. Un turning point verso tematiche e tecniche dei film più autoriali, di contro agli ultimi lavori che, da metà anni 90, palesano una propensione verso un cinema più occluso a quelle forme espressive degli albori.

Se si volesse infatti rintracciare una chiave di lettura al film, andrebbe individuata nell’autoreferenzialità, in quel ciclo chiusosi con Casinò (1995).  Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio), infatti, sancisce il ritorno a personaggi puramente Scorsesiani. Non dissimile dal Charlie Cappa di Mean Street, dall’Henry Hill di Quei Bravi Ragazzi, dal Jake LaMotta di Toro Scatenato e dal Sam “Asso” Rothstein di Casinò, ma forse ancor di più dal Paul Hackett di Fuori Orario. Come quest’ultimo, Jordan è il tipico rappresentante di una casta: gli yuppies. Quei giovani aspiranti al successo e ai soldi facili, tipici rappresentanti degli anni 80. E, da un punto di vista sociologico, chiedersi da cosa nasca l’esigenza di riproporre una figura già ritrita e inflazionata in numerose pellicole (vedi Wall Street di Oliver Stone), può forse contribuire ad assurgere la pellicola a riflesso dei nostri tempi. Tempi in cui domina la speculazione, l’inganno politico ed economico e, soprattutto, la demagogia. Una costante in tutto in film, esercitata da Belfort verso i suoi dipendenti e dagli stessi verso i compratori gabbati. Ma ad edulcorare un modello che, date le premesse, sarebbe risultato spregevole, provvede la fascinazione cinematografica. Il continuo ammiccare di DiCaprio e l’interpellazione verso lo spettatore contribuisce all’inevitabile simpatizzare e desiderio di emulazione. Perché infondo, sembra alludere Scorsese, non aspiriamo tutti al guadagno facile e al successo, al diventare come Jordan? E L’immagine finale sugli aspiranti emuli del modello Belfort è esemplificativa di una tendenza che, dagli anni 80, sopravvive radicata nel costrutto sociale contemporaneo.

E se, nel già citato Fuori Orario, il protagonista finirà col ritrovarsi forzatamente nel suo ufficio dopo la surreale notte – mentre la macchina da presa continua a fluttuare tra le scrivanie in un percorso labirintico, senza uscita –, allo stesso modo Belfort si ritroverà incastrato in un vortice ossessivo di sesso e droghe di ogni tipo. L’iterazione compulsiva sfocerà in un climax in crescendo, efficacemente rappresentato dalle grottesche e sempre più smodate giornate da milionario, ben presto causa della deflagrazione esistenziale e della consequenziale redenzione – non a caso in territorio italiano –

Jordan Belfort è quindi un ibrido tra Charlie Cappa e Henry Hill, ma senza la solida etica del primo e le incoerenze del secondo. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, e la strada intrapresa dal giovane aspirante lo porterà verso quella fatale meta di declino e autodistruzione già scritta dal suo primo ingresso nel regno dell’industria finanziaria. Unica cosa che sopravvivrà sarà proprio la demagogia, quella sua capacità fabulatoria, che lo manterrà ancora sulla cresta dell’onda.

Ma nel voler avvalorare la tesi di una metodologia autoreferenziale, una comparazione con Quei bravi ragazzi sembra doverosa. Se infatti nel film del 1990 il fascino esercitato su Henry Hill (Ray Liotta) era quello verso il mondo dai facili guadagni della mafia, Scorsese sembra mettere in parallelo, attraverso modalità di messa in scena e tecniche del racconto, il mondo altrettanto seducente di Wall Street di Belfort. Una critica sociale rintracciabile tra le righe intertestuali, si direbbe.