domenica, Novembre 10, 2024

Berlinale 61 – Die Jungs vom Bahnhof Zoo di Rosa von Praunheim (Germania, 2011)

È un Rosa von Praunheim in forma smagliante quello dei “ragazzi della stazione dello zoo”, lo zoo di Berlino. Un titolo originale che fa il verso a Christiane F. e ai suoi “Kinder vom Bahnhof Zoo”, letteralmente bambini, o perlomeno minori, dediti a varie attività autodistruttive nei pressi della stazione ferroviaria più grande della vecchia Berlino ovest. I ragazzi di Rosa sono tutti maschi, e tutte marchette. Maggiorenni, almeno al momento di passare davanti all’obiettivo. Ma il tema della prostituzione minorile, per quanto reale, è rimasto fuori dall’inquadratura. Del resto, dice Rosa, è già stato abbastanza difficile trovare i soldi per fare questo, di documentario.

Breve parentesi didascalica su Holger Mischwitzky alias Rosa von Praunheim, regista classe 1942 in attività dal 1967, molto prolifico e, come suolsi dire, militante. Nel senso pieno e responsabile del termine. Quando nel 1970 realizzò i sessanta minuti di Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (‘non è l’omosessuale a essere perverso, bensì la situazione in cui vive’) Rosa non fece il primo film tedesco a tematica gay – il primato spetta a Richard Oswald per Anders als die Anderen, 1919 – ma il primo film mi-li-tan-te, un film che disseziona senza pietà la vita di un omosessuale medio nella Berlino di quei tempi e dà la colpa, prima ancora che alla società omofoba, alla mentalità borghese e vigliacca che domina la scena e guida i comportamenti individuali. “Fuori dai cessi, tutti in strada!” recita lo slogan che conclude il film a mo’ di frustata rosa shocking. Essere militante, per Rosa, significa stimolare il progresso sociale e civile in un sol modo: la visibilità, la trasparenza. La spregiudicatezza, anche. Non a caso, l’unica “categoria frocia” che sfugge ai commenti lapidari di Rosa nel suo manifesto del ’70 è quella delle Tunten, le checche, megafoni solitari di un discorso di liberazione che passa sulle ambiguità, gli occhiolini strizzati e l’ipocrisia come un rullo compressore. Tunten lügen nicht (‘le checche non mentono’) recita un suo titolo del 2002.

Il film si apre con un frammento di cinegiornale del 1965 in cui si descrive l’andazzo scandaloso della stazione berlinese, dove un’autentica popolazione di “Asozialen” minaccia il comune senso del pudore offrendo corpi maschili in cambio di una mancia competente. Non c’è sorprendersi, osserva il giornalista schifato, visto che Berlino è l’unico Land dove è consentito a due uomini di ballare assieme… E a quel punto le danze cominciano davvero. Al giorno d’oggi. Die Jungs vom Bahnhof Zoo è un documentario su cinque ragazzi – due tedeschi, tre rumeni – con alle spalle lunghe esperienze di prostituzione, tutte innescate da un vissuto traumatico e da esigenze pecuniarie. Sono (stati) tutti, o quasi, eterosessuali dichiarati ma non praticanti, almeno quando si tratta di tirar su quel gruzzolo esentasse che ti cambia la vita. Daniel-Rene ha intascato per anni il 30% delle sue prestazioni scambiando per amici una rete di papponi recentemente incarcerata per sfruttamento della prostituzione minorile. Daniel è scappato di casa e ha scoperto che il sesso è meno rischioso e complesso di rubare una macchina. Quanto a Ionel, Romica e Nazif, pur con storie profondamente diverse, i bar per marchette di Schöneberg hanno rappresentato un modo per tirare a campare nella ricca Mitteleuropa in cui il turismo sessuale è un po’ come Maometto e la montagna. O vengo io, o vieni tu.

Rosa von Praunheim ha girato il film nell’arco di svariati anni, fedele all’idea di avviare mille progetti e di concluderli pian piano, non appena arrivano le occasioni giuste. La prima scintilla è stata fare la conoscenza di Daniel, figura centrale del documentario, poi è lo stesso Rosa ad ammettere che se non si fosse innamorato, due anni e mezzo fa, di un operatore di SUB / WAY (ora Hilfe-für-Jungs), un centro che fornisce assistenza a 360° per i ragazzi in difficoltà (street working in primis) non si sarebbe mai imbattuto nelle altre storie che compongono l’affresco. Storie che, al contrario dei compartimenti stagni di Tote Schwule, lebende Lesben (2008, recensito qui su indie-eye), il montaggio amalgama e interseca ottenendo un risultato meno spigoloso del solito, anche se l’estetica è l’ultimo problema che assilla il regista.

Le location di Die Jungs vom Bahnhof Zoo non sono solo berlinesi. Rosa si è spinto fino a Vienna per recuperare Nazif, e insieme a Ionel è arrivato con la troupe fin nel cuore della Romania, nel villaggio da cui, statistiche alla mano, proviene il più alto tasso di marchette in attività nella capitale tedesca. I voli costano poco e la versione ufficiale a uso e consumo dei famigliari è che a fare il musicante nella U-Bahn si guadagna bene. Ma chi li affitta, questi Rent Boys? I cosiddetti Freier sono tanti, e schivi. L’unico ad avere la sana sfrontatezza di mostrarsi da capo a piedi è l’attore e regista Peter Kern, una montagna d’uomo che parla il linguaggio prediletto da Rosa, diretto e senza fronzoli. Per Kern le marchette sono dei guaritori, dei benefattori dell’umanità che vendono il loro tempo e il loro corpo a chi ha bisogno di vicinanza umana e di una testa appoggiata sulla spalla. A leggerlo suona una cretinata, ma quando guardi un garrulo sessantenne di 150 chili spogliarsi e immergersi in piscina mentre parla del senso della vita, ci credi.

Il bello dei film di Rosa von Praunheim non è l’aspetto programmatico, ma il turbinio di realtà che l’obiettivo cattura e che le domande del regista estraggono come un’esperta levatrice. Die Jungs vom Bahnhof Zoo è uno dei migliori risultati raggiunti dal filmmaker tedesco sul fronte della militanza, intesa come quella lotta senza quartiere per fare chiarezza e non dimenticare nessuno. Peccato, maligna Rosa, che negli uffici di SUB / WAY ci sia passata la regina Silvia di Svezia ma non il sindaco Wowereit. Visto che quest’anno si vota e il documentario è destinato a circolare molto, sarà meglio che Klaus si faccia vedere e smetta di ignorare i ragazzi dello zoo di Berlino.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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