Buñuel – A Resting Place For Strangers: la recensione

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Quelli che una volta li chiamavano “supergruppi” e che ora, almeno da noi, sono tornati prepotentemente di moda: la fusione di una chitarra elettrica tra le più interessanti e sperimentali del panorama italiano, un batterista dal drumming poderoso ed aggressivo, uno dei bassisti migliori della scena post hardcore nostrana (poi diventato istrionico frontman), e uno dei cantanti più allucinati e violenti degli ultimi trent’anni. Sulla carta il mix è da leccarsi i baffi e i quattro protagonisti (Xabier Iriondo, Franz Valente, Pierpaolo Capovilla, Eugene S. Robinson degli Oxbow) rendono adeguata giustizia alle aspettative. Da nomi così era lecito immaginarsi volumi alti e furia belluina: detto fatto.

In mezz’ora circa, registrata in nemmeno tre giorni, la neonata band allestisce deliberati assalti sonori giocando abilmente su due piani che dialogano alla perfezione: la granitica solidità della sezione ritmica – in cui Valente si conferma come uno dei più solidi e fantasiosi batteristi nostrani e Capovilla ritrova il suono graffiante e diretto dei primi One Dimensional Man – e l’innata anarchia di chitarra elettrica e voce, con Iriondo abilissimo nel far deviare in impeti noise pezzi per lo più in tiratissimi 4/4 e Robinson impegnato in sfuriate di screamo ora declamati ora rumoristici, degni di un David Thomas ancor più disturbante e spaventoso, ma con un controllo vocale che in pochi possono permettersi.

In saggio equilibrio tra (naturali) richiami al primo post hardcore statunitense di fine anni ’80 (tra Butthole Surfers, Jesus Lizard, quali This Love e Jesus With A Cock e qualche ammiccamento anche ai Nine Inch Nails ante Academy Award, quali Me And I) e schizzi rumoristici semi improvvisati (l’intro Cold or Hot), il disco procede arrembante, spedito e conciso, lasciando l’ascoltatore sazio e sanamente rintronato, con la gradevole impressione che i quattro insieme si siano divertiti un mondo, in quanto ciascuno sembra aver messo il proprio background musicale, ancor più di quanto non faccia nelle rispettive “formazioni titolari”. In tale orgia rumoristica, che non disdegna marce elefantiache, non si cerchino chissà quali elucubrazioni concettuali (per fortuna…) ma ci si abbandoni invece ad un sano sfogo pugilistico, che dal vivo promette essere ancor più efficace e pertanto, liberatorio.