Ed Tullett – Fiancé: la recensione

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22 anni, già con le idee chiare e un curriculum invidiabile. Dopo essersi fatto conoscere per il remix di “Hinnom, TX” di Bon Iver, Ed Tullett ha collaborato nella stessa forma con Local Natives e Ajimal e condiviso una produzione con Novo Amor, moniker dietro al quale si cela il cantante gallese Ali Lacey. La visibilità ottenuta con “Faux” lo spinge a lavorare sul proprio materiale. Fiancé è il suo debutto sulla lunga distanza pubblicato da Monotreme Records e in uscita nei primi mesi del 2016. Sospeso tra folk ed elettronica, l’album risente solo in parte dell’ultimo Bon Iver o di artisti a lui vicini come S. Carey, per il maggior peso che l’elettronica occupa nell’economia della sua musica.
Se il falsetto sembra ancorarlo ad una dimensione timbrica già sentita, il calore della voce fa da contrasto all’orchestrazione dei synth, impatto sonoro che spesso ci trascina in una realtà oscura o epicamente sinistra come in “Magnilant“, scandito dalle esplosioni sintetiche, quasi fossero un’orchestra arrangiata da Hans Zimmer.

Altrove, un’estetica kraut pop algidissima fa da sfondo al lirismo dell’ordito, per poi perdersi in brevi derive strumentali, eco lontana di un mondo perduto. Nel modo di comporre del musicista di stanza a Brighton c’è uno spirito completamente britannico e che ricorda i modi di Thomas Dolby nel combinare l’elettronica con altri mondi sonori come il Jazz e il pop. Non sono questi i riferimenti più vicini alla musica di Ed Tullett, ma il folk, le ballad e le torch songs, mantenendo quindi un’affinità solo elettiva con musicisti come Dolby per capacità combinatorie e per il coraggio di lavorare attraverso gli innesti.

La bellissima Kadabre è una sintesi peculiare e mette insieme folk, elettronica e la scansione rituale della musica Koto tradizionale. Agli antipodi di questo lavoro di cesello, l’esplosione emotiva dei synth già percepibile nel singolo che anticipa l’uscita dell’album: Ply flirta in un certo senso con gli eccessi di Patrick Wolf, mantenendo ben saldi i piedi in un nichilismo che asciuga i suoni e li rende più rigorosi di quelli concepiti dal collega, molto più votato a lasciarsi andare ad Ouverture senza alcuna misura.

Ma è Are you real il brano migliore e più indicativo dell’intero lotto. Con un incipit soffuso che ricorda il battito elettronico dei Depeche Mode declinato in versione intima, Tullett costruisce una strana creatura di confine tra folktelling, pop e mondi sintetici, depotenziando il groove sullo sfondo e operando un processo di risemantizzazione di certa elettronica; è in questo modo che la sua musica diventa un suggestivo travelogue dell’anima.

 

Ed Tullet – Ply