venerdì, Novembre 14, 2025

Star Chamber @ Biennale Musica 2025: recensione

Star Chamber si iscrive in quella linea di pratiche performative che fanno dello spazio non un contenitore ma un dispositivo dinamico; lo spettatore è guidato in un ambiente che si fa paesaggio narrativo, agevolando l’ascolto a farsi movimento, corpo, elevazione e moltiplicazione del sé, inteso come processo e non come unità. Appunti sull'evento dal riflesso di un'isola.

Quando arriviamo al pontile Cornoldi, lungo la Riva degli Schiavoni, tra le 12 e le 13 del 19 ottobre, non conosciamo ancora la destinazione della performance ambientale e collettiva fortemente voluta da Caterina Barbieri.
A supporto solo alcune indicazioni sulle schede informative diffuse da La Biennale Musica e poco altro.

Uno stato d’attesa che restituisce ritualità ad una pratica comune a Venezia, quella di imbarcarsi per raggiungere un luogo. Il momento dell’attesa è di per se tempo estetico e nel viaggio verso l’isola ancora ignota, l’assenza di coordinate produce un’esperienza fenomenologica, dove lo spettatore vede e ascolta senza comprendere il contesto.

I motori del battello, il lieve moto ondoso, i rumori della città ormai lontani e indistinguibili.
In quel momento, una voce amplificata emerge nell’intervallo tra la conoscenza e la percezione, un prologo iniziatico che ci consenta di vivere una dimensione mentale e temporale altra.
La performance precede quindi lo stesso evento, generando una sospensione affettiva dove l’atto di vedere e quello di ascoltare rimangono nel limbo dell’attesa prolungata.

Ci metto qualche secondo prima di individuare Hanne Lippard posizionata davanti ad un microfono e dietro le mie spalle, perché l’effetto iniziale è quello di una voce disincarnata che assume la funzione di un improvviso orientamento sonoro dopo aver lasciato la terra ferma. Ma la funzione di guida, su cui gioca a mio avviso un fertile equivoco iniziale basato su certe similitudini aurali, viene subito persa e si possono chiudere gli occhi, oppure come mi è capitato di fare, puntare lo sguardo sulla luce riflessa a pelo d’acqua.

Ecco che quella voce assume il potere di evocare una nuova mitologia, soprattutto quando mi accorgo che Lippard non parla esattamente ad un pubblico, ma rimane inserita tra due stati, con gli antipodi delineati dalla partenza e dall’approdo.
Incrociare il suo sguardo, anche solo per un attimo, crea una soggezione perturbante. Scruta senza vedere, come se abitasse una dimensione parallela alla nostra.

Simile allo psicopompo negli antichi rituali, ci accompagna da un mondo all’altro.
Il testo recitato è quasi integralmente concepito a partire dal tema del riflesso, del doppio e della simultaneità, you appear twice at once, at once.
Senza descrivere quindi, mette in scena la stessa condizione fantasmatica vissuta dai partecipanti, mentre osservano l’acqua che riflette il cielo, nell’inversione gerarchica tra il sopra e il sotto.
Disorientamento poetico che cerca di sincronizzare l’esperienza corporea con quella mentale, dove il movimento è più rilevante di una mappa.
La soglia tra i due mondi è allora modo di essere, risiedere nell’intervallo o se si preferisce, nello spazio della differenza.
I richiami che il testo di Lippard dischiude sono numerosi, dal neoplatonismo dell’immagine riflessa che non conserva il tempo, fino a certe fenomenologie della percezione più vicine al post-moderno, dove il visibile non coincide con l’oggetto della visione, ma con tutto quello che la rende possibile.
Il riflesso non è né allora né dopo, ma ora”, scandisce Lippard quando visualizza il cielo che si specchia sull’acqua, quasi per definire una soglia tra ritenzione e anticipazione. Questo accade anche in termini tecnici, grazie alla frammentazione sintattica che caratterizza il lavoro di ricerca dell’artista di origini norvegesi, il ricorso a numerose tautologie, le auto-ripetizioni come dispositivi per la costruzione di un ritmo ossessivo, capace di operare disarticolazioni non-lineari del tempo.
Come un’onda, la sua voce genera cicli temporali che puntano alla dissolvenza, perché ogni frase riflette sulla precedente, ma generando un’inevitabile mutazione.
La voce si separa dal corpo e diventa puro spazio uditivo. Il soggetto viene allora cancellato attraverso le tecniche di frantumazione vocale che trasformano idiomi, lessemi e fonemi.

 “All that we see or seem / Is but a dream within a dream.

La fragilità luminosa di un riflesso che si infrange sulla superficie dell’acqua, risuona con l’imprestito da Poe che introduce le schede informative dell’evento.
Il reale si piega, si duplica, scompare per apparire altrove. La voce di Lippard rimodella la percezione del paesaggio liquido, mentre sul battello incide la superficie dell’acqua come un arto che sfiora uno specchio. Ogni parola traccia una crepa, questa si allarga in frange di suono che la laguna è capace di restituire come in una dimensione palindroma. Il riflesso stesso, lontano dalla retorica dell’immagine speculare, diventa quindi campo d’azione capace di ribaltare l’ordine dei significati.

L’avvicinamento alla terra ferma ci consente di intravedere una vegetazione fitta e incolta, e un classico “No trespassing” che impedisce al visitatore comune di bucare quel confine.
Appena a terra ci incamminiamo lungo un sentiero ombreggiato dalla flora abbondante, arbusti salmastri, qualche pino probabilmente e la terra battuta per il passaggio. I suoni sono quelli della natura, l’eco dei passi, le voci leggere dei passeggeri, tra curiosità e reverenza.
Una grande radura tra erba e sassi si apre alla fine del sentiero. C’è un piccolo palco sulla sinistra, occupato da una chitarra elettrica e un terrazzamento ben visibile che ci sovrasta.
L’assetto di tipo militare caratterizza tutta l’isola, un panopticon a cielo aperto che scruta il nostro ingresso. Fortezza rinascimentale eretta nel XVI secolo per la difesa dell’ingresso lagunare e nota come Forte Sant’Andrea è immersa nel silenzio dell’abbandono, mentre i primi segnali di una performance estesa emergono.

Sul bastione, un performer vestito con una folta pelliccia bianca e immerso al centro di un flusso ventoso, domina la nostra presenza con il pneuma di un sax.
Bendik Giske, sfrutta le tecniche di microfonazione multipla tra corpo e strumento, oltre all’impiego del respiro come motore ritmico e fisico del suono. Prassi della respirazione circolare che gli consente di generare la continuità della drone music e tutte quelle ripetizioni asimmetriche che evocano le energie ventose di un paesaggio naturale.
In quello spazio elevato, dove il vento e le risonanze architettoniche si fondono con la performance, il sax trattato di Giske produce l’illusione di una sorgente sonora ibridata tra il corpo, gli epifenomeni naturali e la macchina.
Sottomessi dall’alto e incerti se avvicinarci o meno nonostante l’invito della sicurezza, percepiamo una sovrapposizione di forme antropiche e naturali, che estendono l’esperienza di soglia tra la civiltà alle spalle e un regime “naturale” ancora predominante rispetto alle incorporazioni tecnologiche che si sono avvicendate nei secoli.
Nonostante l’origine storica della “Star Chamber” alluda alla presenza di un potere occulto e inaccessibile, il ribaltamento di quel concetto sembra risiedere proprio nella traccia cosmica su cui è stata innestata l’intera Biennale Musica 2025. Siamo quindi in un luogo sospeso, un altrove altrimenti inaccessibile, come il riflesso sull’acqua che separa due mondi. La camera del potere diventa allora quella di una rivelazione iniziatica, dove le categorie percettive possono subire un ribaltamento semantico.
Giske è anch’esso riflesso del sole sull’acqua e se poco prima Lippard suggeriva che “Reflections in the water move, what you see is a sky moving, but not the reflection itself“, noi vediamo l’immagine risonante di una divinità legata agli elementi.

Che sia Baldur o più probabilmente Heimdall, sentinella tra mondi, se ovviamente seguissimo le suggestioni della mitologia norrena, Giske incarnerebbe, per posizione e scelta dei suoni, la soglia occupata dal guardiano di una realtà in cui siamo momentaneamente riflessi. Il bianco della pelliccia, in relazione al discorso sull’identità che il performer di origini norvegesi spesso percorre, diventa territorio queer di sfaldamento del corpo, altra zona di rifrazioni e riflessi.
Allora è l’emanazione sonora che predomina, più che la raffigurazione “divina”, e se per Giske il sax è una seconda pelle, come ha avuto modo di raccontare più volte, è impressionante come il suono a tratti introflesso e distorto, altre volte disumano e pervasivo come la tempesta, crei un’eco espanso sull’ambiente che ci fagocita.

Diventa già chiaro come l’isola non sia implicata come semplice ambientazione, ma svolga in realtà il ruolo di co-autore delle performance incorporate; voce ed espansione di altre voci a dispetto dell’idea di sfondo che spesso caratterizza l’utilizzo semplicemente decorativo di certi ambienti.

Star Chamber si iscrive allora in quella linea di pratiche performative che fanno dello spazio non un contenitore ma un dispositivo dinamico; lo spettatore è guidato in un ambiente che si fa paesaggio narrativo, costringendo l’ascolto a diventare corpo e movimento.

La seconda epifania sonora disseminata nello spazio a sincronizzarsi con noi per alcuni minuti, prima di dissolversi nuovamente con l’ecologia e la morfologia dell’Isola è il set in duo di Mabe Fratti ed Héctor Tosta, collocati sopra al piccolo palco ligneo intravisto nella radura, sullo sfondo di un rudere di mattoni rossi.
Violoncello, voce e chitarra per sintetizzare gli aspetti più dilatati e pre-formali già visti in parte qui alla Biennale durante il loro concerto al Piccolo Teatro Arsenale.
Il lavoro di Fratti sulla ripetizione e la trasformazione timbrica che le consente di combinare lirismo con elementi più rumoristici, lascia spazio a varie forme di processazione del suono.
Sembra di assistere ad una versione primordiale e basica del Glastonbury fuori dal palco deputato, filmato da Nicolas Roeg nella sua versione Fayre durante il 1971 per l’edizione allestita nel Somerset più rurale.
Non c’è ovviamente la violenza liberatoria che possedeva il pubblico dell’epoca, ma lo sfondo naturale che ingloba la forza performativa di Fratti, trattiene quella sostanza rituale in dialogo con gli elementi.
Del resto si tratta di un set che ha determinato un ponte tra la decostruzione dello spoken word operata da Lippard e la trance aerofonica di Giske, dove violoncello, chitarra e voce hanno rinsaldato un orizzonte più corporeo, ma sempre espanso nello spazio del possibile.
Siamo ancora nel varco tra i due piani dell’esperienza, poco prima di attraversare alcuni archi e trovarci nella grande polveriera della fortezza, trasformata dalle sei voci di Graindelavoix in una cappella sospesa sul mare. Il sito, coperto da volta emisferica e aperto in alcuni punti verso l’acqua, accoglie nella pietra tutte le risonanze, dove il viaggio si conclude come se avessimo raggiunto la camera interiore: l’eco della voce che si eleva.

Il rinascimento decostruito dall’ensemble francese diventa canto ancestrale proprio per le qualità lontane dalla retorica mimetica e filologica delle esecuzioni specifiche.
In questo spazio separato dal mondo sembra di assistere ad un rituale segreto dove sia possibile connettersi nuovamente con tutti i registri della voce, anche quelli inesplorati.
Si avvertono in modo diverso, ma altrettanto chiaro, le modulazioni complesse tra una linea e l’altra rispetto al concerto eseguito nella Chiesa di San Lorenzo, sempre qui alla Biennale.

Risuonano ancora le parole di Lippard: “There is only one you. Only one you takes one step back. It is a step back, but it is a step forward in time“, ovvero, nel momento in cui lo specchio, segno che può indicare tanto l’identità quanto la forma, si infrange, nasce una nuova condizione legata ad un processo in divenire, lontano dall’unità e vicino alla qualità molteplice delle voci interiori.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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