giovedì, Dicembre 5, 2024

Un Silence di Joachim Lafosse: recensione – San Sebastian 2023

LaFosse, uno degli autori di cinema più importanti e significativi in circolazione, prosegue l'analisi sui drammi che mettono a nudo l'assetto famigliare e allo stesso tempo restituisce un'immagine del patriarcato e dei suoi effetti tra le più potenti e dolorose della sua filmografia. "Un Silence", presentato in anteprima mondiale al festival di San Sebastian individua nel silenzio un confine difficile e doloroso che determina diverse eziologie del crimine.

Gli abusatori sono figure frequenti nel cinema di Joachim Lafosse. A prescindere dalle ragioni e le condizioni che determinano il loro agire, il regista belga non è interessato a tracciarne un profilo psicologico che giudichi la violazione di norme sociali, quanto ad osservare origini dei comportamenti e conseguenze sull’assetto della famiglia nucleare.

Un Silence torna in un certo senso dalle parti di Élève libre, ma rispetto a quell’educazione sentimentale nata sotto il segno della depravazione libertina e sviluppatasi come aggressione ideologica contro i modelli della società borghese, rileva la presenza di una o più perversioni come effetto che si riverbera sulle relazioni tra genitori e figli.

Il rigore nell’organizzazione dello spazio è quello a cui ci ha abituati sin dai suoi primi film e che qui subisce un’espansione diversa rispetto agli estremi opposti dei confini domestici che caratterizzano titoli come Nue Propriété, il già citato Élève libre, À perdre la raison, L’Économie du couple e l’apertura o la fuga da quei perimetri, verso i deserti di Les Chevaliers blancs e Continuer.

Già Les Intranquilles contraeva le due dimensioni, definendo uno straordinario sentimento di libertà contro le regole imposte dall’emergenza epidemiologica, con le continue evasioni dal rifugio domestico, verso gli spazi aperti, il lago e tutto ciò che l’iperattività patologica del personaggio interpretato da Damien Bonnard non riusciva a contenere tra le mura.

Un silence sembra incorporare nuovamente la realtà osservata dalla soglia di una stanza, ma attraverso la relazione conflittuale con l’esterno, luogo occupato dall’assalto dei media, rispetto al quale la casa, nel bene nel male, diventa un fortino.

Ci sono due sequenze formidabili nel film che descrivono questa tensione tra esterno e interno, dove la macchina da presa mantiene fisso un punto di osservazione che non supera mai la distanza tra la cornice e i soggetti incorporati. È un modo specifico del cinema di Lafosse che gli consente di stabilire un equilibrio miracoloso tra l’intimità delle relazioni e la prossimità ai corpi.

L’occhio si ferma sempre un attimo prima di violare la realtà osservata e spesso lascia fuori campo una porzione del visibile, per descrivere in profondità le tensioni che lo spazio domestico può contenere.
Non pedina, non giudica né assegna a questo o quel personaggio il peso di tutta la realtà rappresentata, perché la posizione assunta è sempre quella di un ospite che rimane più indietro rispetto agli eventi, mentre cerca di fotografare le forze opposte che creano e distruggono lo spazio famigliare.

In À perdre la raison erano le focali lunghe, qui è l’impiego del dolly che non incombe mai sui volti e i corpi.

Quando Daniel Auteil si dirige verso la villa, attraversando il grande viale alberato, alle spalle si lascia un muro di giornalisti a cui viene vietato l’accesso. Uno stato d’assedio che tornerà ad essere visibile nel tragico epilogo, osservato sempre da dietro la cornice.
Ciò che l’avvocato François protegge nel duello con i media regolato da accordi precisi, in superficie riguarda la famiglia difesa all’interno di un dibattimento in corso, ma eccede la dimensione processuale sovrapponendosi ai segreti custoditi nello spazio invalicabile della casa.
È una sequenza che spiega meglio di altre la complessità del cinema di Lafosse, dove vittime e carnefici possono improvvisamente sostituire ruoli e cambiare posizione, nello spazio di trasmissione del gesto e del movimento.

L’idea di silenzio come confine che determina la legittimità o l’aberrazione dei segreti famigliari, è quindi il difficile confine su cui tutto il film si muove.

In termini narrativi Lafosse prende spunto dalla vicenda che nel 2010 coinvolse l’avvocato Victor Hissel, legale dei genitori delle bambine di otto anni, sequestrate, seviziate e lasciate morire di stenti da Marc Dutroux, conosciuto grazie alle definizioni della stampa come il mostro di Marcinelle.
Hissel veniva successivamente accusato di aver consultato migliaia di immagini e filmati a carattere pedopornografico, parte di un traffico finalizzato alla realizzazione e vendita su commissione di materiale dall’indicibile brutalità. Rivelazioni che lasciarono sgomenta tutta la comunità belga, a partire dal figlio di Hissel che reagì ferendo gravemente il padre con un coltello.

Un Silence comincia in medias res e riavvolge il racconto proprio nel momento in cui Astrid, la moglie dell’avvocato interpretata da Emmanuelle Devos, viene costretta a rompere un silenzio durato 25 anni.

Lafosse sposta il climax che innesca la vicenda alla fine del film, rivelandone in parte la qualità tragica per potenziarne e arricchirne il senso. La riproduzione dell’evento, escluso dalla visione come nel fratricidio di Nue Propriété o nell’infanticidio di À perdre la raison, ricombina la rhèsis della tragedia, accentuando anticipi, rimandi, allusioni che già nel mondo classico consentivano di collocare l’orrore del sangue fuori scena.

Il limite diventa un mezzo espressivo accentuato dalla collocazione del punto di vista tra visibile e possibile. È quindi prima di tutto legato all’organizzazione dello spazio come potenzialità dello sguardo di orientarsi all’interno di una pluralità di voci.

Le ragioni del silenzio quindi concretizzano il peso e la sostanza di una tragedia rimandata. Se in quella classica la non verbalizzazione era strettamente connessa ad altre forme figurative di comunicazione, il velo che copre volti e sopprime le parole nel film di Lafosse è una sostanza invisibile che si riverbera sugli stessi e sulle azioni.

Oltre al volto intensissimo di Emannuelle Devos, capace di trattenere in un solo primo piano tutte le conseguenze della negazione, è anche il ballo che improvvisa con Raphaël, il figlio adottivo interpretato dall’esordiente Matthieu Galoux. Quel momento intimo origliato da François dietro una porta, incorpora più di un registro, che passa impercettibilmente dalla vicinanza materna a quella erotica.

La carica di questo piccolo evento privato racconta più di qualsiasi altra confessione il rifugio necessario e lo sbilanciamento affettivo di una donna indotta a tacere per anni.

Non è meno stratificata la relazione tra il peso del silenzio e le forzature giuridiche per romperne la rigidità. Lafosse filma le stanze anguste dell’interrogatorio come una struttura che separa e distrugge definitivamente la coesione famigliare, dove l’unica forma di comunicazione tra le parti è rappresentata dalle domande e dal muoversi concitato di Jeanne Cherhal, che interpreta uno degli investigatori incaricati.

L’onere della prova è allora una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. Di abuso si parla, ma è dormiente nei ricordi inconfessati di famiglia come un marchio nascosto sotto i vestiti. La vittima rimarrà fuori campo, definita attraverso un brutto ricordo adolescenziale ormai irrecuperabile.
Pierre, di cui conosciamo solo il nome, è l’idea stessa del silenzio, l’immagine che si sottrae nella sua irrappresentabilità.

Raphaël, testimone diretto dell’eroismo del padre confezionato dai media, sperimenta un disallineamento crudele che ne distrugge l’aura. Il silenzio colpisce anche lui e lo obbliga a confrontarsi in modo esplosivo con la menzogna.

L’eziologia del crimine allora investe in modo metamorfico paure, reazioni e sentimenti di un nucleo, passando da un gesto all’altro.

Solo il volto di Astrid nell’aula processuale trascolora dalla maschera dolente all’accenno di un sorriso liberatorio che carica il suo silenzio di altri possibili significati.

Un Silence di Joachim Lafosse (Belgio 2023, 100 min)
Sceneggiatura: Joachim Lafosse, Chloé Duponchelle, Paul Ismaël
Fotografia: Hensgens Jean-François
Montaggio: Damien Keyeux
Musica: Meredi , Hania Rani, Hannah Peele, Tepr , Michel Berger, Johann Johannsson, Olafur Arnalds

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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