giovedì, Aprile 25, 2024

Macondo di Subadeh Mortezai: Berlinale 64 – Concorso

Chi è abituato alla franchezza urticante del cinema austriaco, ai piani fissi e pulsionali di Ulrich Seidl, ai sadismi del Michael Haneke dantan, stia bene alla larga da Macondo. Perché potrebbe restarci male. Macondo è un luogo, un frammento della suburbia viennese che dagli anni Cinquanta ospita rifugiati, persone in fuga, «extracomunitari». Un microverso lontano anni luce dagli stereotipi del bel Danubio blu, un brodo potenzialmente strepitoso dal punto di vista letterario o cinematografico. Macondo è dove gli adulti spiccicano due parole due di tedesco, spesso malvolentieri, e sono i bambini a parlare al posto loro quando ci si trova dinanzi all’Autorità. Macondo è dove certe bambine hanno la pezza in testa, dove certi bambini in testa hanno ancora immagini di guerra e di morte, dove i bambini sono dappertutto. E degli adulti è meglio non fidarsi.

La regista tedesca Subadeh Mortezai, figlia di iraniani, ha preso l’iniziativa di girare un film in quel di Macondo. Iniziativa commendevole così come il risultato: commendevole, cioè totalmente prono ai dettami del politically correct, con punte di banalità che fanno male al cervello. Un tipo di mediocrità che cozza con un cinema sovente vitale e smaliziato come quello austriaco, allineandosi alla peggiore produzione tedesca: quella che per non sbagliare, non osa. Macondo è così: una buona idea affogata nell’insipienza.

Il plot segue il piccolo Ramasan (Minkailov), che vive a Macondo insieme alla madre (Gazieva) e le due sorelline. Il padre è morto durante la seconda guerra russo-cecena, e il film è ambientato nel sottoinsieme della comunità cecena, islamica, alla periferia di Vienna. Gli spunti drammatici sono rappresentati dai problemi che il nucleo familiare ha con la burocrazia e le forze dell’ordine, e dalla reticenza di Ramasan ad accettare che un uomo (Elbiev), peraltro un buon uomo, avvicini la madre e si candidi a nuovo pater familias (ruolo, di fatto, finora esercitato dall’undicenne). Come per Jack, altro film di «bambini in città» quest’anno in concorso, lo scorno non viene dalla confezione, decorosa, del film, ma da una forma d’inadempienza drammaturgica che vorrebbe spacciarsi per scelta autoriale. Macondo non è un film noioso o irritante: è solo fiacco, inconcludente, dimenticabile. E dire che con uno sfondo del genere sarebbero stati possibili i fuochi d’artificio.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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